Enrico arrivò alla base della parete e iniziò a scaricare l’attrezzatura dallo zaino: due tiri di corda, cordino di sicurezza, imbrago, scarpette, moschettoni, rinvii, chiodi e martellina, il sacchetto con la magnesite.
Guardò in alto, alla ricerca del primo chiodo: era ancora là, a una decina di metri da terra, poco visibile accanto ad un grosso appiglio sporgente. L’aveva piazzato lì apposta perché non lo si vedesse troppo: era una via mai tentata da nessuno e Enrico voleva a tutti i costi essere il primo ad aprirla. Tutti i grandi alpinisti che aveva conosciuto avevano almeno una via che portava il loro nome e lui non voleva essere da meno. Era da settimane che ci lavorava in solitaria, tentando e ritentando su quella parete che pareva facile, all’inizio, ma che avanzando presentava non poche difficoltà: la roccia a tratti friabile, alcuni tratti quasi lisci, uno spuntone che andava assolutamente aggirato da sopra, visto che sotto era completamente marcio e affrontarlo in pendenza negativa equivaleva praticamente a suicidarsi. Fino al largo terrazzone a circa metà parete ci era già arrivato una volta, qualche giorno prima, perdendo un paio di volte la presa e volando appeso al chiodo più vicino, per fortuna senza gravi conseguenze, però quel giorno voleva assolutamente arrivare in cima.
Quella vetta lo chiamava da tempo, da quando lui e Maurizio arrampicavano in coppia sulle pareti lì intorno e lui guardava da lontano quello spuntone solitario che pareva non avere padroni né vie di accesso praticabili. Enrico aveva girato in lungo e in largo tutta la zona senza venirne a capo, ma più impossibile gli sembrava trovare un attacco accessibile, più quella cima lo stregava.
Era diventata una sfida personale, ormai: una di quelle ossessioni pericolose che spesso ti fanno perdere la ragione e dimenticare ogni forma di prudenza.
Con Maurizio ci aveva litigato due mesi prima, proprio a causa di quella sua ossessione: l’amico avrebbe voluto affrontare altre pareti, mentre Enrico continuava ad orbitare lì intorno, come una falena con la sua candela.
Maurizio aveva intuito qualcosa, probabilmente. Forse voleva addirittura allontanarlo da lì per soffiargli la “prima” sotto il naso, ma Enrico non era tipo da farsi fregare così facilmente e ad un certo punto l’aveva mandato a quel paese, rifiutando messaggi e chiamate e fingendo addirittura di non essere in casa quando l’amico lo veniva a cercare.
Ed ora era lì, ai piedi della sua parete, ignota alla maggior parte degli scalatori della zona, pronto per l’impresa che lo avrebbe certamente consacrato sulle riviste alpinistiche di tutto il paese.
Affondò le mani nella magnesite e afferrò con presa sicura i primi appigli. Fino al primo chiodo era storia facile: l’aveva messo lì perché poteva tranquillamente arrivarci in libera e una volta arrivato lì il grosso appiglio sporgente gli forniva una base sicura per fermarsi a sistemare il cordino di sicurezza e i fermi di autoassicurazione per poter proseguire sulla corda che aveva in spalla. Con gesti automatici sistemò il necessario e ripartì verso il secondo chiodo che da lì si vedeva appena. Avanzava quasi senza fatica, sugli appigli che aveva ormai fissato in mente nelle decine di ascese fatte nelle ultime settimane e assicurò la corda anche al secondo chiodo. La base della parete era ormai a più di venti metri sotto i suoi piedi ma Enrico non aveva certo paura delle altezze, piuttosto lo intimoriva un po’ il traverso pressoché liscio che avrebbe dovuto affrontare per arrivare al terzo chiodo: qualunque imprudenza l’avrebbe fatto pendolare su oltre dieci metri di corda e lì sì che c’era da farsi male sul serio!
Cercò di non pensarci, rilassò alternativamente le braccia prima di ripartire e si diede un piccolo slancio con le gambe per andare a prendere con la mano destra l’ultimo appiglio evidente.
Da lì in poi era come camminare su una lama di rasoio ma la pratica delle ultime settimane lo portò con relativa facilità al terzo chiodo.
Da lì al terrazzone roccioso di chiodi ne aveva potuti mettere altri, molto più vicini, e il rischio di farsi male era molto più basso, come aveva già potuto sperimentare. Adesso arrivare alla prima sosta era quasi un gioco da ragazzi ma da lì in poi era ancora tutto da inventare.
Seduto sulla grande sporgenza rocciosa osservava la parete che lo sovrastava, cercando di individuare un percorso sicuro ma da lì poteva vedere ben poco e decise di essersi riposato abbastanza. Fissò un primo chiodo e sistemò in posizione i fermi. Non era certo il caso di rischiare salendo in libera da lì: se qualcuno fosse stato abbastanza bravo da arrivare fino a quel punto non si sarebbe fermato certo per un chiodo mancante.
Gli appigli erano evidenti e solidi e anche superare lo spuntone mezzo marcio fu in fondo abbastanza facile. La vetta era ormai a pochi metri che Enrico superò tutti d’un fiato, sedendosi poi soddisfatto su un grosso sasso e fotografando tutto intorno, se’ compreso.
Decise che la sera stessa avrebbe trascritto tutto il percorso con le relative difficoltà e si apprestò a scendere di nuovo fino al terrazzone.
Recuperò il primo tiro di corda e se lo mise in spalla: era a dir poco euforico per essere riuscito nella sua personalissima impresa e senza nemmeno riposare si assicurò di nuovo alla prima corda per scendere fino all’attacco e concludere con una bella birra ghiacciata quella giornata che gli avrebbe portato gloria e onori, alla faccia di quelli che gli volevano male!
Fu durante il traverso più pericoloso che i suoi peggiori incubi presero forma: perse la presa e volò, imperniato su quel chiodo troppo lontano, come aveva temuto in tutti quei giorni di tentativi. Per quanto avesse tentato di girarsi in volo, finì per sbattere pesantemente contro la parete con la spalla destra. Rimase intontito dal dolore per qualche secondo, constatò con un certo sollievo che il chiodo e la corda avevano retto l’urto e cercò immediatamente di togliersi da quella posizione ma il braccio destro penzolava dolorante lungo il fianco e non voleva saperne di muoversi. Senza troppa convinzione sperò non fosse rotto e cercò di usare il sinistro per girarsi ma un dolore lancinante gli tagliò il fiato: doveva essersi rotto anche qualche costola. L’imbrago cominciava a stringere le gambe che presto avrebbero perso sensibilità. Era fregato, anzi: si era fregato da solo, stupido che era stato! Era talmente preso dalla sua ossessione da dimenticarsi le più elementari regole di prudenza: nessuno sapeva che fosse lì, nessuno sarebbe venuto a cercarlo.
Nella tasca destra dei pantaloni il telefono vibrava ma il braccio destro, evidentemente rotto, continuava a non volersi muovere. Tentò di incrociare il sinistro davanti al petto per per raggiungere la tasca, ma il dolore alle costole gli attraversò il torace come una lama.
Il respiro gli si fece affannoso e cominciò a non sentire più i piedi. Appeso all’imbrago, con la schiena alla parete, per la prima volta da quando aveva iniziato quella follia fu costretto a guardarsi intorno: vide la folta distesa di alberi che terminavano a ridosso della strada e la ragnatela di sentieri che portavano alle cime vicine. Notò con sorpresa i colori diversi delle pareti circostanti e si rese conto che in tutto quel tempo si era preoccupato solo di dove metteva mani e piedi, vedendo solo la roccia davanti al proprio viso, evitando accuratamente di guardarsi intorno, concentrato unicamente sui propri obiettivi agonistici, perdendosi tutta quella bellezza.
Ormai era preda delle allucinazioni. Lo sguardo gli cadde sul parcheggio dove, accanto alla propria gli parve vi fosse un’altra auto: un’auto rossa che pareva proprio quella di Maurizio, ma era impossibile, Maurizio poteva essere ovunque, tranne che lì e lui l’aveva trattato così male da non meritarsi certamente il suo aiuto.
Sentiva uno strano ronzio nelle orecchie, lasciò vagare lo sguardo nel vuoto di fronte a se’ e realizzò che quella striscia blu che vedeva all’orizzonte doveva essere l’Adriatico. Il ronzio si fece più forte e lo sguardo gli si annebbiò. Mentre scivolava nell’incoscienza pensò, non senza una certa dose di ironia, che morire in uno scenario simile – addirittura con vista mare! – fosse un privilegio per pochi. Non sentiva più nulla, ora, tranne quel fastidioso ronzio sempre più forte. Percepì uno strattone e un forte spostamento d’aria e con le ultime forze che gli restavano pensò quasi con sollievo che un cedimento del chiodo fosse molto meglio di quell’agonia infinita.
Non vide Maurizio che gesticolava alla base della parete e perse i sensi proprio mentre il verricello iniziava ad issarlo nell’elicottero.