Vista mare

Enrico arrivò alla base della parete e iniziò a scaricare l’attrezzatura dallo zaino: due tiri di corda, cordino di sicurezza, imbrago, scarpette, moschettoni, rinvii, chiodi e martellina, il sacchetto con la magnesite. 

Guardò in alto, alla ricerca del primo chiodo: era ancora là, a una decina di metri da terra, poco visibile accanto ad un grosso appiglio sporgente. L’aveva piazzato lì apposta perché non lo si vedesse troppo: era una via mai tentata da nessuno e Enrico voleva a tutti i costi essere il primo ad aprirla. Tutti i grandi alpinisti che aveva conosciuto avevano almeno una via che portava il loro nome e lui non voleva essere da meno. Era da settimane che ci lavorava in solitaria, tentando e ritentando su quella parete che pareva facile, all’inizio, ma che avanzando presentava non poche difficoltà: la roccia a tratti friabile, alcuni tratti quasi lisci, uno spuntone che andava assolutamente aggirato da sopra, visto che sotto era completamente marcio e affrontarlo in pendenza negativa equivaleva praticamente a suicidarsi. Fino al largo terrazzone a circa metà parete ci era già arrivato una volta, qualche giorno prima, perdendo un paio di volte la presa e volando appeso al chiodo più vicino, per fortuna senza gravi conseguenze, però quel giorno voleva assolutamente arrivare in cima.

Quella vetta lo chiamava da tempo, da quando lui e Maurizio arrampicavano in coppia sulle pareti lì intorno e lui guardava da lontano quello spuntone solitario che pareva non avere padroni né vie di accesso praticabili. Enrico aveva girato in lungo e in largo tutta la zona senza venirne a capo, ma più impossibile gli sembrava trovare un attacco accessibile, più quella cima lo stregava. 
Era diventata una sfida personale, ormai: una di quelle ossessioni pericolose che spesso ti fanno perdere la ragione e dimenticare ogni forma di prudenza.

Con Maurizio ci aveva litigato due mesi prima, proprio a causa di quella sua ossessione: l’amico avrebbe voluto affrontare altre pareti, mentre Enrico continuava ad orbitare lì intorno, come una falena con la sua candela.
Maurizio aveva intuito qualcosa, probabilmente. Forse voleva addirittura allontanarlo da lì per soffiargli la “prima” sotto il naso, ma Enrico non era tipo da farsi fregare così facilmente e ad un certo punto l’aveva mandato a quel paese, rifiutando messaggi e chiamate e fingendo addirittura di non essere in casa quando l’amico lo veniva a cercare.

Ed ora era lì, ai piedi della sua parete, ignota alla maggior parte degli scalatori della zona, pronto per l’impresa che lo avrebbe certamente consacrato sulle riviste alpinistiche di tutto il paese.

Affondò le mani nella magnesite e afferrò con presa sicura i primi appigli. Fino al primo chiodo era storia facile: l’aveva messo lì perché poteva tranquillamente arrivarci in libera e una volta arrivato lì il grosso appiglio sporgente gli forniva una base sicura per fermarsi a sistemare il cordino di sicurezza e i fermi di autoassicurazione per poter proseguire sulla corda che aveva in spalla. Con gesti automatici sistemò il necessario e ripartì verso il secondo chiodo che da lì si vedeva appena. Avanzava quasi senza fatica, sugli appigli che aveva ormai fissato in mente nelle decine di ascese fatte nelle ultime settimane e assicurò la corda anche al secondo chiodo. La base della parete era ormai a più di venti metri sotto i suoi piedi ma Enrico non aveva certo paura delle altezze, piuttosto lo intimoriva un po’ il traverso pressoché liscio che avrebbe dovuto affrontare per arrivare al terzo chiodo: qualunque imprudenza l’avrebbe fatto pendolare su oltre dieci metri di corda e lì sì che c’era da farsi male sul serio!

Cercò di non pensarci, rilassò alternativamente le braccia prima di ripartire e si diede un piccolo slancio con le gambe per andare a prendere con la mano destra l’ultimo appiglio evidente.

Da lì in poi era come camminare su una lama di rasoio ma la pratica delle ultime settimane lo portò con relativa facilità al terzo chiodo.

Da lì al terrazzone roccioso di chiodi ne aveva potuti mettere altri, molto più vicini, e il rischio di farsi male era molto più basso, come aveva già potuto sperimentare. Adesso arrivare alla prima sosta era quasi un gioco da ragazzi ma da lì in poi era ancora tutto da inventare.

Seduto sulla grande sporgenza rocciosa osservava la parete che lo sovrastava, cercando di individuare un percorso sicuro ma da lì poteva vedere ben poco e decise di essersi riposato abbastanza. Fissò un primo chiodo e sistemò in posizione i fermi. Non era certo il caso di rischiare salendo in libera da lì: se qualcuno fosse stato abbastanza bravo da arrivare fino a quel punto non si sarebbe fermato certo per un chiodo mancante.

Gli appigli erano evidenti e solidi e anche superare lo spuntone mezzo marcio fu in fondo abbastanza facile. La vetta era ormai a pochi metri che Enrico superò tutti d’un fiato, sedendosi poi soddisfatto su un grosso sasso e fotografando tutto intorno, se’ compreso.

Decise che la sera stessa avrebbe trascritto tutto il percorso con le relative difficoltà e si apprestò a scendere di nuovo fino al terrazzone.

Recuperò il primo tiro di corda e se lo mise in spalla: era a dir poco euforico per essere riuscito nella sua personalissima impresa e senza nemmeno riposare si assicurò di nuovo alla prima corda per scendere fino all’attacco e concludere con una bella birra ghiacciata quella giornata che gli avrebbe portato gloria e onori, alla faccia di quelli che gli volevano male!

Fu durante il traverso più pericoloso che i suoi peggiori incubi presero forma: perse la presa e volò, imperniato su quel chiodo troppo lontano, come aveva temuto in tutti quei giorni di tentativi. Per quanto avesse tentato di girarsi in volo, finì per sbattere pesantemente contro la parete con la spalla destra. Rimase intontito dal dolore per qualche secondo, constatò con un certo sollievo che il chiodo e la corda avevano retto l’urto e cercò immediatamente di togliersi da quella posizione ma il braccio destro penzolava dolorante lungo il fianco e non voleva saperne di muoversi. Senza troppa convinzione sperò non fosse rotto e cercò di usare il sinistro per girarsi ma un dolore lancinante gli tagliò il fiato: doveva essersi rotto anche qualche costola. L’imbrago cominciava a stringere le gambe che presto avrebbero perso sensibilità. Era fregato, anzi: si era fregato da solo, stupido che era stato! Era talmente preso dalla sua ossessione da dimenticarsi le più elementari regole di prudenza: nessuno sapeva che fosse lì, nessuno sarebbe venuto a cercarlo.
Nella tasca destra dei pantaloni il telefono vibrava ma il braccio destro, evidentemente rotto, continuava a non volersi muovere. Tentò di incrociare il sinistro davanti al petto per per raggiungere la tasca, ma il dolore alle costole gli attraversò il torace come una lama.
Il respiro gli si fece affannoso e cominciò a non sentire più i piedi. Appeso all’imbrago, con la schiena alla parete, per la prima volta da quando aveva iniziato quella follia fu costretto a guardarsi intorno: vide la folta distesa di alberi che terminavano a ridosso della strada e la ragnatela di sentieri che portavano alle cime vicine. Notò con sorpresa i colori diversi delle pareti circostanti e si rese conto che in tutto quel tempo si era preoccupato solo di dove metteva mani e piedi, vedendo solo la roccia davanti al proprio viso, evitando accuratamente di guardarsi intorno, concentrato unicamente sui propri obiettivi agonistici, perdendosi tutta quella bellezza.

Ormai era preda delle allucinazioni. Lo sguardo gli cadde sul parcheggio dove, accanto alla propria gli parve vi fosse un’altra auto: un’auto rossa che pareva proprio quella di Maurizio, ma era impossibile, Maurizio poteva essere ovunque, tranne che lì e lui l’aveva trattato così male da non meritarsi certamente il suo aiuto.
Sentiva uno strano ronzio nelle orecchie, lasciò vagare lo sguardo nel vuoto di fronte a se’ e realizzò che quella striscia blu che vedeva all’orizzonte doveva essere l’Adriatico. Il ronzio si fece più forte e lo sguardo gli si annebbiò. Mentre scivolava nell’incoscienza pensò, non senza una certa dose di ironia, che morire in uno scenario simile – addirittura con vista mare! – fosse un privilegio per pochi. Non sentiva più nulla, ora, tranne quel fastidioso ronzio sempre più forte. Percepì uno strattone e un forte spostamento d’aria e con le ultime forze che gli restavano pensò quasi con sollievo che un cedimento del chiodo fosse molto meglio di quell’agonia infinita.
Non vide Maurizio che gesticolava alla base della parete e perse i sensi proprio mentre il verricello iniziava ad issarlo nell’elicottero.

Autunno

“Certo che l’autunno è una stagione ben strana”, pensò Antonio fra se’ mentre, come ogni mattina, attraversava il paese a passi lenti “I prati sono colorati come in primavera, fa ancora caldo, ma magari il giorno dopo piove e tocca mettere già le maniche lunghe”.

Camminava per le strade di sempre, talmente conosciute che se avesse chiuso gli occhi le avrebbe potute percorrere a memoria. Camminava e si guardava in giro, salutando qualcuno ogni tanto e immaginando le parole maligne dietro a tanti falsi sorrisi. Arrivò alla piazza e vide il parroco, fermo davanti alla porta della chiesa. Gli fece un cenno di saluto che l’altro ricambiò senza particolare entusiasmo.

Passò oltre, arrivando alla strada che portava fuori, come se tra quelle quattro case in mezzo alla campagna si potesse identificare un “fuori” o un “dentro”. Nel prato che si apriva a destra della strada vide svettare i capolini gialli del topinambur e si fermò a raccoglierne qualcuno da aggiungere al mazzo di fiori selvatici che già teneva in mano. Staccava gli steli con perizia, senza strapparli, mentre sentiva gli sguardi dei suoi compaesani piantati nella schiena come pugnali e immaginava i loro commenti, ma andò avanti senza voltarsi.

Arrivò al ponte sul canale di irrigazione, quello dove negli anni in tanti per distrazione – ma qualcuno pure per volontà – erano caduti e annegati. Anche lui aveva rischiato, due anni prima, ma con una certa fortuna si era salvato. Si affacciò alla spalletta a guardare l’acqua torbida e fece spaziare lo sguardo intorno, come in cerca di qualcuno. Rimase lì per un tempo indefinito poi, ricordandosi che i fiori avevano bisogno d’acqua, si riscosse e riprese il cammino. 

Il cimitero era poco lontano, ormai: accelerò il passo e si diresse verso il cancello d’ingresso.
La lapide era semplice e pulita, con i caratteri in ottone che brillavano al sole. Antonio tolse dal vaso i fiori più rovinati e vi aggiunse quelli che teneva in mano. Ricompose il mazzo con gesti misurati, facendo in modo che i fiori dallo stelo lungo non coprissero quelli più piccoli, che i colori non cozzassero troppo tra loro e che il tutto avesse un aspetto ordinato, poi soffiò via i petali secchi dal marmo, raccolse ciò che andava buttato e andò a prendere dell’acqua per rabboccare il contenuto del vaso.

La signora Carini girò di scatto la testa per non farsi scoprire a scrutarlo, ma lui se n’era accorto già da quando era entrato. Solo mentre Antonio le passava accanto, lei finse di accorgersi della sua presenza e allora lui, partecipando alla recita, la salutò educatamente mentre andava alla fontanella. Tornò alla tomba, riempì il vaso e si sedette su una grossa pietra che aveva fatto mettere lì apposta per poterla usare come sgabello. Guardò il viso dolce della sua Maria che sorrideva dalla foto in bianco e nero e cominciò a raccontare a bassa voce: “Sai, ieri Gioele ha iniziato l’asilo. Era proprio bello vederlo lì, in mezzo agli altri bambini…”

Parlava a bassa voce, raccontando piccole storie di vita quotidiana, di ciò che succedeva in casa loro, di quel poco che poteva succedere in un paesino come quello, scandito dai ritmi della campagna e delle stagioni. 
Le raccontò ancora una volta di Adele, di come si fosse sistemata bene in quella grande casa mezza vuota, di quanto attiva e collaborativa fosse e della grande compagnia che gli facevano entrambi, ora che era rimasto solo, poi si chinò a baciare quella foto un po’ sbiadita e si avviò verso il cancello, accompagnato in sottofondo dal mormorio astioso della signora Carini.

Ripassò dal ponticello e si fermò nuovamente alla spalletta, ripensando a quel giorno di fine settembre di due anni prima. 

Aveva appena accompagnato Maria nel suo ultimo viaggio ed era rimasto lì fino alla fine, fino a veder cadere l’ultima palata di terra, fino a che anche gli operai del comune se n’erano andati e poi lentamente, da solo, si era avviato verso casa.
La strada era ormai deserta e Antonio si era fermato sul ponte a riprendere fiato quando si era accorto di un movimento in basso, vicino al canale. Pensava al solito capriolo imprudente, ma guardando meglio aveva scorto la ragazza con quel fagottino bianco tra le mani e le aveva urlato subito: “Vieni via da lì! È pericoloso!”. Lei si era voltata di scatto, lo sguardo disperato dell’animale in trappola, ed aveva iniziato ad indietreggiare, scivolando sulla sponda umida. Antonio era esperto di quel posto disgraziato: qualche imprudente l’aveva salvato anche lui, quand’era più giovane, ed era corso giù evitando i punti più scoscesi con passo esperto e sicuro. Arrivato abbastanza vicino le aveva porto una mano per aiutarla a risalire, ma lei sembrava più determinata a scendere che a salvarsi. Antonio allora aveva capito e si era allungato per sbarrarle la strada, riuscendo a strapparle di mano il fagotto, dal quale sporgeva ora una manina paffuta. La ragazza si era messa a urlare: “Ridammi il mio bambino, non posso morire senza di lui!”
“E non morirai nemmeno CON lui! Non oggi, almeno!” le aveva gridato Antonio di rimando. Approfittando di una sua distrazione l’aveva afferrata per un braccio e la tirava su mentre lei si dimenava e piangeva disperata. In tutta quella pericolosa manovra, alla fine, era proprio Antonio che stava rischiando di finire nel canale, ma fortunatamente un ramo si era messo di traverso, impedendogli all’ultimo momento di cadere in acqua. 
Seduto sulla riva, sporco e dolorante, guardava la ragazza sconvolta che cercava di consolare il pianto disperato di quel bambino. Aveva già preso la sua decisione, ma aspettava che i due si calmassero: l’avrebbe portata a casa sua e l’avrebbe fatta dormire lì – a meno che non ci fosse una famiglia da cui riportarla subito – e l’indomani si sarebbe deciso il da farsi. 
La ragazza sulle prime non voleva sentire ragioni, ma il pianto del bimbo era sempre più forte e insistente e alla fine fu quello a convincerla ad accettare la mano che l’uomo le stava porgendo. Arrivati nella grande casa, Antonio aveva preparato una cena calda, aveva dato alla ragazza dei vestiti puliti e avevano parlato un po’.
Adele, così si chiamava, gli aveva raccontato di essere una ragazza madre, che il padre del bambino era un uomo sposato che non voleva prendersi le proprie responsabilità e che la sua intenzione, ora che aveva deciso di voler vivere, era di andare a cercare fortuna più a nord, magari appoggiandosi a dei lontani parenti che vivevano vicino a Roma. 
Antonio le aveva preparato il letto in una stanza di quella casa silenziosa e l’aveva lasciata tranquilla, ritirandosi pensieroso in camera sua. 
Dalla foto sul comodino Maria sembrava lo guardasse negli occhi e la sua voce dolce e decisa gli rimbombava in testa dicendogli: “Puoi farlo. È giusto così”.

Interrompendo il flusso dei ricordi, Antonio riprese a camminare verso casa e ripassò dalla piazza. Guardò la gradinata del municipio e si fermò di nuovo, sorridendo al pensiero di quello che era stato capace di combinare. 

Su quei gradini, il giorno successivo, ci era salito assieme a Adele e al bambino. Ci aveva messo parecchio a convincerla, ma sapevano tutti e due che quella era l’unica strada. Si erano presentati all’anagrafe, dove lui aveva chiesto un riconoscimento di paternità dichiarando Gioele come figlio suo, frutto di una relazione clandestina con quella ragazza che aveva meno della metà dei suoi anni. 
Prima che i tre uscissero dal municipio, lo scandalo era già scoppiato e la notizia era sulla bocca di tutti. Perfino il parroco si era precipitato lì a sincerarsi che Antonio non fosse impazzito, ma l’unica cosa che l’uomo gli aveva detto era che, avendo già causato abbastanza guai, non aveva alcuna intenzione di sposarsi con Adele, almeno per non peggiorare le cose. 

Da dietro le finestre chiuse qualcuno lo osservava, fermo in mezzo alla piazza vuota. Ridacchiando ancora tra se’, Antonio riprese a camminare e arrivò finalmente a casa. 

Gioele corse ad abbracciarlo, mentre Adele si affacciava sorridente alla porta della cucina. 
La casa era nuovamente casa, viva e calda, come lo era finché Maria era stata in grado di occuparsene.

Assaporò quei momenti mentre pensava che in fondo l’autunno non è poi una così brutta stagione: porta frutti inaspettati, a volte, e riempie di colori la vita. 
Ma soprattutto, l’autunno è quella strana stagione in cui pensi sia arrivato il momento di chiudere certi conti e dove poi, invece, ti ritrovi felicemente intento ad aprirne altri. 

Scelgo la speranza

Notte. Mi rigiro tra le lenzuola nell’inutile ricerca di un punto del letto che sia un po’ più fresco. La luna, fuori, è un faro: mi abbaglia, mi ferisce gli occhi, mi scava dentro e non mi fa dormire. 

Non è evidentemente una buona notte per nessuno. Nella stanza vicina rumori inequivocabili mi parlano di sonno che non arriva: fruscio di lenzuola, sospiri, un lieve cigolio del letto ad ogni movimento. Rimango in attesa e raccolgo le forze. 

Dopo l’ennesimo sospiro ecco il primo singhiozzo. Mi alzo e senza accendere la luce, a tentoni, raggiungo l’altra stanza. Non faccio in tempo a sedermi sul letto che una mano mi afferra e mi ritrovo sulle ginocchia la testa di Anna che immediatamente scoppia in lacrime. Non dico nulla, lascio che si sfoghi mentre le accarezzo piano i capelli. 

Quando smette di tremare le chiedo: “Che succede, tesoro?”, anche se dentro di me conosco già la risposta. 

“Ci stanno imbrogliando, papà!”

“Che vuoi dire?”  rispondo.

“Ci dicono sempre che abbiamo tutta la vita davanti, ma non ci dicono mai quanto durerà!”

“Tesoro, non lo sa nessuno! Come potrebbero dircelo?”

Va avanti come se non mi avesse sentito: “Anche mio fratello aveva tutta la vita davanti. E anche mamma, anche se aveva un po’ di anni in più”

“Amore, nessuno poteva prevedere quell’incidente. Che cosa ti viene in mente?”

“Nulla, solo che è tutto così ingiusto! Siamo semplicemente condannati a invecchiare e morire e qualcuno addirittura a morire senza nemmeno invecchiare. Che senso ha?” dice, scoppiando nuovamente a piangere. Questa ragazzina è sempre stata molto più avanti della sua età, ma – accidenti! – ora non so più come rispondere. 

Cerco qualche appiglio, magari qualche memoria scolastica. Certo, se avessi seguito con maggiore attenzione le lezioni del povero prof. Parise, magari adesso avrei qualche base filosofica in più per controbattere, invece così non ho speranza… aspetta, com’era quella frase di Seneca…? Scegli la speranza o qualcosa del genere.

Qualche ricordo riaffiora e mi ci aggrappo con tutte le mie forze, come un naufrago al suo pezzo di legno. Tento un approccio un po’ bislacco, ma potrebbe funzionare: “vedi, tesoro, non è che possiamo vivere per sempre…”

Mi pento subito della mia scelta. La voce di Anna ora è quasi un ruggito: “Luca aveva solo tre anni! Nemmeno sapeva cosa volesse dire vivere o morire. Per lui per sempre aveva la durata di un pomeriggio con gli amici dell’asilo!”

La determinazione mi prende: “Per ognuno di noi per sempre ha un significato diverso: per tuo fratello era lo spazio di un bel momento, per me è quanto ancora mi verrà dato da vivere, per te è tutto, ma non necessariamente tutto deve significare molto.”

Alla luce della luna i suoi occhi ora mi guardano fisso, ansiosi di speranza. Continuo. 

“La nostra vita è un momento, più o meno lungo. Anche se è triste pensarlo, prima o poi ce ne andremo tutti. Ma il senso del tutto non è semplicemente esistere: il senso a questa esistenza lo dobbiamo dare noi. Mamma ha studiato, ha viaggiato, si è innamorata, mi ha sposato, abbiamo avuto due figli meravigliosi. Purtroppo la sua esistenza è stata interrotta molto prima di quanto noi due potessimo immaginare e sperare, ma tutto ciò che ha fatto – che ha desiderato fare – l’ha realizzata, l’ha resa viva e – in qualche modo per noi – immortale, perché senza di lei tu non ci saresti e io non sarei quello che sono. La morte non è il compimento finale, la morte fa parte del meccanismo e alla fine, anche se ti può sembrare assurdo, ci rende vivi.”

Mi accorgo di aver messo in fila tutto il discorso senza quasi prendere fiato. 

Anna mi guarda, attonita, ma ancora non è convinta: “E allora Luca? Cos’ha realizzato lui? Vedi che alla fine è solo la morte ad essere la regina di tutto?”

Il ricordo di Luca mi brucia dentro ma ricaccio indietro le lacrime: 

“Luca era troppo piccolo per realizzare qualcosa, se non darci felicità. Ed è ciò che ha fatto: ci ha resi felici, immensamente. Ti pare poco? Per quanto breve possa essere stata la sua esistenza è stata un’esplosione di gioia. È stata vita. La morte potrà pure essere la regina di tutto, ma, per dirla tutta, credi che una regina vorrebbe restare senza sudditi?”

“Cosa vorresti dire?” mi chiede, stupita. 

Riprendo coraggio: “Esattamente quello che ho detto: la morte non può tutto. Non può toglierci la gioia che abbiamo provato, non può modificare i momenti felici, non può rimuovere dalle nostre vite ciò che esse sono state.
Non può e non vuole, perché se con la nostra morte si azzerasse tutto nessuno la temerebbe più e una regina senza sudditi non avrebbe alcun senso di esistere.”

Ora lo sguardo di Anna buca l’oscurità: “quindi la vita e la morte si bilanciano? Quindi è una questione di… equilibrio?” ha quasi timore a pronunciare la parola.

“Esatto! La morte esiste perché esiste la vita, così come il buio esiste perché esiste la luce. Se spegniamo momentaneamente la luce non smettiamo di credere nella sua esistenza, vero?”

Annuisce, mentre le sue mani si rilassano tra le mie. Non sarà l’ultima volta che affronteremo l’argomento, ma un passo l’abbiamo fatto. Forse è solo un altro passo, ma è ancora un altro passo. 

Anna mi abbraccia stretto, sento ancora le sue guance rigarsi di lacrime, ma non è più disperazione quella che le bagna gli occhi: è sollievo. Lo stesso che provo io. 

Ora ricordo perfettamente anche la frase di Seneca: “Soppesa, quindi, speranza e paura, e quando tutto sarà incerto, favorisci te stesso: credi a ciò che preferisci. Anche se il timore avrà più argomenti, scegli la speranza e metti fine alla tua angoscia“. 

Il prof. sarebbe quasi fiero di sapere come me la sono cavata. 

Sì è alzata un po’ di brezza, Anna finalmente scivola verso il sonno, mentre il suo respiro si fa sempre più profondo.

C’è ancora una notte da percorrere, ma la luna ora è un faro che ammicca dalla spiaggia e mi guida su una rotta sicura, fuori dalle scogliere delle mie paure. 

Almeno per questa notte.

Il sale alle erbe

Il sale alle erbe non ha una ricetta. Almeno, non ne ha una sola.

Lo farai a primavera, per cogliere i profumi più freschi, quelli delle foglie tenere, appena spuntate. E anche se l’inverno sarà appena finito ti metterai subito al lavoro, per ricordarti che la meraviglia della primavera non durerà per sempre.

Dovrai farlo prima che le aromatiche fioriscano, perché tu vuoi conservare gli aromi, non uccidere la pianta.
E in fondo lo farai per ricordarti di rinascere, come fanno i persiani, che all’equinozio di marzo festeggiano il capodanno. Mica come noi fessi che lo facciamo quando il mondo è ancora tristemente buio e freddo e in tanti ci domandiamo sempre che cosa diamine ci sia da festeggiare, quando il sole tramonta appena dopo pranzo.

Il sale alle erbe lo si fa col sale grosso e molto rosmarino, ma senza esagerare, anche se quel suo odore aspro e pungente non ti basta mai.

E certamente ci vuole il timo, che rilascerà il suo profumo nelle lunghe cotture invernali, e la menta, veramente poca, ché altrimenti sarà invadente.

Ci metterai anche del finocchietto, per ricordarti la freschezza anche in inverno; la maggiorana e l’origano, profumi caldi, simili ma complementari; e la salvia, che sta bene proprio su tutto.
E ancora la melissa, perché la sua dolce freschezza di limone ti ricordi le lunghe estati di quando eri bambino; l’erba cipollina, che non stanca mai; un po’ di alloro, per gli arrosti; il dragoncello, per un tocco esotico; il mirto, per ricordarti il dolce vento sul mare anche quando il mare sarà una lastra di ferro grigia e fredda; e – perché no? – anche qualche foglia di lavanda, perché quel suo profumo spunti fuori a sorpresa mentre starai preparando un couscous.
Lo rifarai anche alla fine di agosto, il tuo sale alle erbe. Usando le erbe mature, cariche di sole e di vento, con le foglie che sembrano scoppiare di profumo, per tentare di rinchiudere sotto sale in quel vaso anche quell’ennesima estate, con la paura di contarle tutte e scoprire che sono già tantissime, quelle che ti sono passate sulla pelle.

Lascerai le erbe a macerare nel sale per tutto il tempo necessario, al buio.
Il sale asciuga, assorbe i liquidi, secca le fibre. Si prende tutto il profumo e lo mantiene intatto per mesi. Poi, quando ti sembrerà che basti, estrarrai tutto dai vasi e macinerai poco alla volta quel tesoro, grani di sale grosso ed erbe assieme, ottenendo un sale più fine ma verde e grigio, profumato d’estate e di sole.

E poi, quando verrà veramente l’autunno, andrai a cercare il ginepro maturo e ne metterai una manciata di bacche in ogni vaso. E magari anche qualche grano di pepe, perché il sapore sia un po’ più deciso.

E camminando e cogliendo scoprirai che in fondo anche la vita ha le sue certezze, i suoi profumi principali, i suoi tocchi esotici e le sue sorprese.

E che per noi il sale che ci conserva intatti è quello dell’acqua di mare. O delle lacrime.
E che, come per il sale alle erbe, anche per la vita non c’è mai una ricetta sola.