Kugelhupf

Ma la finite di pavoneggiarvi con la vostra presunta bravura in cucina? La smettete di citare a sproposito quel gran genio dell’Artusi? Di riempirvi di boria criticando l’ultima puntata di Masterchef mentre cucinate minestrine insipide?

Che poi, in quanti l’avete letto veramente, l’Artusi? Sono certo che non più di cinque di voi sapranno elencarne qualche ricetta a memoria.
Prendiamo, che ne so, la ricetta del Kugelhupf, dolce tipico del nord-est, di grande eredità austroungarica.
Come lo so? Lo so. Accontentatevi. Mica vi devo raccontare tutto.

Ma torniamo a voi: quanti saprebbero farlo?

Nessuno risponde?

Paura come a scuola, vero? Quando vi nascondevate sotto il banco per evitare l’interrogazione… eh, lo so…
Perché l’Artusi, almeno il titolo, si cita sempre – fa così tanto figo! – ma poi, quando dovete mettervi ai fornelli per fare un dolce vi riducete sempre a fare la solita crostata con la solita pasta frolla pronta in rotolo e la solita confettura di albicocche finto bio del discount sotto casa. Lo so, eh se lo so!

E INVECE NO! La cucina va sudata, vissuta, è una missione per conto di dio! Il vostro dio è l’Artusi, “La scienza in cucina” il suo santo vangelo, io sono il vostro sergente Hartman e voi? Voi non siete né sarete mai nemmeno degni di accostarvici, che ve lo dico a fare? “Perché?” mi domanderete.

PERCHÉ?

Ma perché senza il robot da cucina – o almeno lo sbattitore – non sapreste nemmeno da dove iniziare!
Sbaglio? Davvero? E allora vediamo la ricetta e parliamone.
Iniziamo dagli ingredienti:

Farina d’Ungheria o finissima, grammi 200
Burro, grammi 100
Zucchero, grammi 50
Uva sultanina, grammi 50
Lievito di birra, grammi 30
Uova, uno intero e due rossi
Sale, un pizzico
Odore di scorza di limone
Latte, quanto basta

E già vi vedo, tutti pronti alla pugna nazional-salutista:
TRE UOVA?!? Ma sono tantissime, per soli 200 grammi di farina!”;
Il burro! Ma non lo si può sostituire con l’olio di oliva, o con lo yogurt, che è meno grasso?
Il colesterolo!”;
Il fegato!”;
Aita!”;
Soccorso!”;
Accorruomo!
La farina d’Ungheria? Ma non possiamo usare prodotti italiani?

Ma vi devo pure rispondere? NO! Non si può!

Le uova non le potete diminuire, altrimenti il vostro dolce non sta insieme!
Il burro nei dolci lievitati è necessario – ma, che dico? INDISPENSABILE! – e non è certo più pesante di quei panini untuosi che mangiate al fast-food senza minimamente sentirvi in colpa – né pensare a quanto male ne direbbe l’Artusi, peraltro.

E poi la farina: scommetto che siete andati subito a cercare su google che cosa sia la ‘farina d’Ungheria‘ e la rete delle reti vi ha risposto che si tratta di ‘farina di grano, molto ricca di glutine, simile alla Manitoba’.

E via tutti a dire: “e allora usiamo la Manitoba! Mangiamo italiano!”.
Certo, come no, usando la farina fatta col grano canadese.

Complimenti. Bravi proprio.

Volete che andiamo avanti? Sicuri? Andiamo avanti, problemi vostri:

Intridete il lievito col latte tiepido e un pugno della detta farina per formare un piccolo pane piuttosto sodo; fategli un taglio in croce e ponetelo in una cazzarolina con un velo di latte sotto, coperta e vicina al fuoco, badando che questo non la scaldi troppo. […]’

Semplice, vero? E allora fatelo e poi ditemi com’è andata. Dai: vi aspetto al varco…

Ma cosa vuol dire ‘piuttosto sodo’…?
Quanta farina è ‘un pugno’…?
Intridere…? Ma il lievito non si deve sciogliere?
Cosa vuol dire ‘latte, quanto basta’…?

Eccoli lì. Ma perché chiedete? Non siete voi i genî del polsonetto? Quelli che dovrebbero andare a Masterchef un giorno sì e l’altro pure (ma poi non ci andate perché ‘eh, sai, il lavoro, i figli, la zia vedova…’). Non siete voi quelli che volevano aprire il ristorante ma che poi non l’hanno fatto ‘per non umiliare gli amici’…?
Che dire… siete altruisti da fare schifo! Dei veri boy scout! Volete anche la medaglia?

Comunque, visto che ne avete evidentemente bisogno: ‘un pugno’, ‘quanto basta’, ‘piuttosto sodo’ sono come il sale nell’acqua della pasta. Lo vorrete mica pesare, no?
E tanto vi basti. I cuochi siete voi.

Intridere’ è normale, se si usa il lievito di birra.
O pensavate forse di usare quel puzzolente lievito istantaneo in polvere con cui preparate in dieci minuti quelle vostre orrende pizze casalinghe che sanno di cartone?
Siamo seri, suvvia. Altrimenti non chiedete, anzi: non cucinate proprio, ché tanto non ne siete capaci.

Insomma, torniamo al nostro dolce: avete il vostro bel panetto di pasta lievitata – se fortunosamente non l’avete messo troppo vicino al fuoco e non l’avete bruciato (e comunque bastava metterlo nel forno con la sola luce accesa, ve lo dico ora che avete certamente già sbagliato perché in fondo anch’io ho un cuore) – e ora? E ora proseguiamo:

D’inverno sciogliete il burro a bagno-maria poi lavoratelo alquanto coll’uovo intero, indi versate lo zucchero e poi la farina, i rossi d’uovo, il sale e l’odore, mescolando bene. Ora, aggiungete il lievito che nel frattempo avrà già gonfiato e con cucchiaiate di latte tiepido, versate una alla volta, lavorate il composto con un mestolo entro a una catinella per più di mezz’ora riducendolo a una consistenza alquanto liquida, non però troppo […]’

E in estate? Il burro lo devo fondere ugualmente?

NO. In estate questo dolce non lo fai. È un dolce invernale, non lo vedi, genio? E infatti lo devi lavorare per più di mezz’ora. A mano, così risparmi pure sul riscaldamento.
Perché l’Artusi mica ce l’aveva l’impastatrice, nel 1800. Qui si vede il vero cuoco: quello che le cose le sa fare anche senza le macchine.

Anzi: SOPRATTUTTO senza le macchine, che diamine!

Ma perché lo chiedete a me, come si fa? Dovreste saperlo voi.
O senza la frusta-a-gancio-attaccata-sulla-planetaria non sapete nemmeno dove state di casa?
Lavorare! Muscoli! Movimento! Devo spiegarvi anche come impugnare il cucchiaio, razza di rammolliti?

Per ultimo versate l’uva e mettetelo in uno stampo liscio imburrato e spolverizzato di zucchero a velo misto a farina, ove il composto non raggiunga la metà del vaso che porrete ben coperto in caldana o in un luogo di temperatura tiepida a lievitare, al che ci vorranno due o tre ore. […]’

TRE ORE?!? Ma io non ce l’ho tutto quel tempo! Devo portare mia figlia a danza/spostare il disco orario dell’auto parcheggiata in terza fila/andare a farmi i capelli/in palestra/dal dentista…

E allora non fai i dolci in casa, ciccio. Vai in pasticceria, li trovi belli e fatti, li paghi un botto e ti perdi la soddisfazione.
Ma perché continuate a chiedere? E perché proprio a me? Che vi ho fatto?

Quando sarà ben cresciuto da arrivare alla bocca del vaso, mettetelo in forno a calore non troppo ardente, sformatelo diaccio, spolverizzatelo di zucchero a velo o se credete (questo è a piacere) annaffiatelo col rhum.

Scommetto che la parte del rhum è quella che vi è piaciuta di più.

No. Non ve la spiego, la battuta.

Fatelo raddoppiare di volume’, questo significa quando dice che l’impasto deve ‘crescere fino alla bocca del vaso’. Ma perché spreco ancora il mio tempo con voi?

Sformatelo diaccio’ significa che dovete farlo raffreddare nella sua teglia (e prima ancora deve intiepidire nel forno socchiuso, ché altrimenti ne fate una frittella)!

Perché cucinare è un’arte e la dovete imparare a forza di errori madornali! Come il soufflé sciolto di Sabrina, ve la ricordate, la Hepburn finta stordita che si dimenticava di accendere il forno mentre si sdilinquiva per William Holden, (senza immaginare peraltro che poi sarebbe finita dritta dritta nelle braccia di quell’altro sciupafemmine di Humphrey Bogart)?

Ecco. Ma non illudetevi: voi non siete nessuno dei tre.

E non sapete nemmeno cucinare.

Come lo so? Perché io ho letto l’Artusi, è ovvio!

E guai se non l’avessi fatto, perché altrimenti tutti questi bei consigli, oggi, chi ve li dava?

Però ora scusate, ma non ho altro tempo da perdere con voi, ché il microonde ha appena finito di scongelarmi la lasagna.
Non mi vorrete mica far perdere la sfida tra Cracco e Cannavacciuolo in TV, vero?

Ah, Paris!

Jeanne uscì dal portone del palazzo e gettò uno sguardo soddisfatto attorno a se’.
Certo, Parigi era tutta bella, ma quella zona era un vero bijou: poco traffico, molte zone verdi, palazzi signorili e… il sorriso le si spense sulle labbra, mentre lo sguardo si posava su un punto dall’altro lato della strada dove, in una nicchia tra due bei palazzi notò ancora quel mucchio di stracci abbandonato. Aveva già scritto una mail piuttosto seccata alla segreteria dell’arrondissement, il giorno precedente, spiegando che un così bel quartiere non poteva certo essere lasciato all’incuria e all’inciviltà e augurandosi che si prendessero subito provvedimenti in merito, ma evidentemente la pulizia di un angolo tanto bello e signorile della città non era tra le priorità dell’amministrazione. 

Le sarebbe toccato sollecitare, magari con una telefonata. Già si immaginava il penoso colloquio con la segretaria – quell’inutile ochetta con più tette che neuroni – ma quel che era necessario andava fatto. Decise che avrebbe chiamato non appena arrivata in ufficio e rinfrancata all’idea di dare il proprio nobile contributo alla civiltà di quel posto benedetto da Dio, girò i tacchi e si avviò decisa verso la metro

Al telefono, la segretaria le stava spiegando con quel suo tono petulante che l’arrondissement era grande e non si poteva certo pretendere che ogni problema venisse risolto seduta stante, ma Jeanne non la lasciò finire la frase e le disse che avrebbe parlato direttamente con l’amministratore Chartroux, se necessario, pur di far sparire immediatamente quello scempio. 
La segretaria ammutolì, deglutì rumorosamente e poi, con un profondo sospiro, si scusò e disse che avrebbe mandato il giorno stesso qualcuno a controllare la situazione.

Soddisfatta per l’esito della chiamata, Jeanne si dedicò al suo lavoro e la giornata trascorse in fretta, nonostante la fremente eccitazione al pensiero che finalmente quell’angolo di fronte a casa sua sarebbe tornato pulito e presentabile, come era giusto che fosse. 

Scese dalla metro e si affrettò verso casa per vedere il risultato della sua paziente ma laboriosa attesa. Girò l’angolo e per la sorpresa fece quasi cadere la borsetta a terra: quello schifo era ancora lì! Peggio: lo avevano malamente spostato, forse sperando di nasconderlo. Furente, decise che avrebbe fatto da se’, spedendo poi un eloquente resoconto fotografico all’amministratore Chartroux. Attraversò la strada e puntò decisa verso quell’orrore. Stava ancora cercando i guanti “usa e getta” che portava sempre nella borsetta, quando alzando lo sguardo si accorse che quel mucchio informe di stracci era… una persona!

Un ragazzino, per la precisione, che non doveva avere più di 12-13 anni, sporco e maleodorante, rannicchiato in quel cappotto troppo grande per lui. Jeanne restò impietrita a fissarlo per qualche secondo, finché anche lui si accorse della sua presenza e si girò a guardarla. Dopo averla studiata per un po’, tese la mano e le chiese a mezza voce se avesse degli spiccioli, o magari una sigaretta. “Ma sentilo, una sigaretta! Sei pazzo?” – replicò lei con la voce resa stridula dalla rabbia – “Tu non dovresti fumare, alla tua età!” indietreggiava mentre parlava, con gli occhi sbarrati, come se avesse visto il demonio in persona. Estrasse il telefono e compose il numero della gendarmerie mentre il ragazzo, intuita la mala parata, si alzava e scappava via, sparendo subito dietro l’angolo del palazzo. 

Jeanne rimase lì ancora per qualche secondo e poi riattraversò di corsa la strada, infilandosi ansimante nel portone. A casa si fece un lungo bagno caldo, per togliersi dalle narici quel terribile odore, cenò e si mise a letto, pensierosa.
Dormì poco e male e al mattino successivo uscì senza nemmeno fare colazione, ma appena fuori dal portone si calmò immediatamente: dall’altro lato della strada, la nicchia tra i due palazzi era vuota, quel mendicante doveva aver capito l’antifona ed era andato a disturbare da un’altra parte. “Meglio così, anche se…”
Rimase pensierosa per un attimo, poi scacciò ogni dubbio, e si avviò di buon passo.

Quando però nel pomeriggio rientrò a casa le sembrò di ripiombare in un incubo: il ragazzino puzzolente era di nuovo là! Decise di affrontare la situazione di petto: attraversò la strada, respirando a fondo per mantenere la calma, e gli si parò davanti con lo sguardo furente: “Cosa ci fa un ragazzino come te in mezzo alla strada? Non ce li hai dei genitori?”
“Ah, sei ancora tu?”, disse lui, guardandola con aria di sfida, “mi hai portato delle sigarette?”
“No, non ti ho portato nessuna sigaretta, rispondi alla mia domanda!”, si infuriò Jeanne.  
Di fronte a tanta rabbia, il ragazzo sembrò tornare in se’, si appoggiò all’indietro e iniziò a parlare, con l’aria di chi quella stessa storia l’aveva già raccontata altre mille volte: “L’ultima volta che lo vidi, papà si stava imbarcando su una di quelle grosse navi che stanno via mesi e mesi. Poi mamma si è ammalata ed è morta. Ad un certo punto papà ha smesso di chiamare e soldi non ne sono più arrivati. Lì a Marsiglia non potevo più starci, anche perché avevo paura che prima o poi avrebbero capito che vivevo da solo e sarebbero venuti a prendermi per portarmi in un orfanotrofio, così ho messo in una borsa ciò che poteva essermi utile e sono fuggito.”

Jeanne si sentiva come se stesse osservando la scena dall’esterno e improvvisamente si sentì dire: “Credo di poterti aiutare. Seguimi”.

Lui tentennò, immaginando di trovare la gendarmerie appostata dietro qualche angolo, ma alla fine si fece convincere. Jeanne vinse il ribrezzo che quell’odore le causava e se lo portò in casa. Lo fece restare nell’ingresso, mentre si toglieva il soprabito e quando tornò lo trovò seduto a terra. Pensò per un attimo al povero tappeto – un autentico Gabeh afgano – a contatto con quei vestiti luridi, ma si riscosse subito: “Ti va di darti una ripulita? Ti preparo un bel bagno caldo e ti potrai mettere dei vestiti puliti, così questi li buttiamo via”. Lui la guardò sospettoso: “Il cappotto non lo toccare, questo resta con me!”
“Va bene”, rispose lei, conciliante “ma fammelo almeno lavare”.
“Vedremo”, disse. Stava iniziando a toglierlo quando Jeanne intravide un luccichio, sotto i vestiti sporchi e subito esclamò: “Ma come? Sei qui da cinque minuti e già stai tentando di rubarmi qualcosa? Fammi vedere subito cos’hai preso!”
Lui scattò in piedi e si richiuse a riccio nel cappotto: “Non ti ho rubato niente! Non c’è niente che mi interessi, qui!”
“E allora cos’è che luccica, lì sotto?”, urlò lei.
Lui si bloccò, una mano già sulla maniglia della porta. Sospirò, fece un passo indietro, infilò una mano sotto il cappotto ed estrasse di malavoglia un piccolo binocolo di ottone. Sembrava un oggetto da marinaio: “me l’aveva regalato papà, dopo uno dei suoi viaggi”, confermò lui, “Diceva che la felicità arriva da lontano e devi poterla vedere per tempo, se vuoi prenderla al volo”.

Jeanne si calmò di colpo, era quasi commossa. Gli fece strada verso il bagno e lo lasciò lì, mentre andava a cercare dei vestiti adatti.

Quello che uscì dal bagno mezz’ora dopo, pulito e profumato, avvolto nell’accappatoio morbido pareva un altro ragazzo. Jeanne gli aveva preparato dei vestiti puliti da indossare subito e una sacca con dei ricambi: “questi ti dovrebbero durare per un po’ ” disse. Lui la guardò con lo stesso sguardo sospettoso di prima: “Perché lo fai? Da dove viene questa roba? Era dei tuoi figli?”
Jeanne rise: “No, io non ho figli, non sono nemmeno sposata. Ma collaboro da tempo con le Dame di carità, le conosci?” Lui fece di sì con la testa: ogni tanto era andato a mangiare da loro, vicino a Nôtre Dame. “Giusto l’altro ieri ho ricevuto una donazione di abiti usati da una famiglia qui vicino e ricordavo ci fosse qualcosa della tua taglia. Vuoi mangiare qualcosa? Non ti manca un pasto caldo?”
Gli occhi del ragazzo si addolcirono per un attimo, mentre spiegava quanto gli mancasse la zuppa di cipolle di sua madre. Jeanne lo guardò dolcemente: “la mia zuppa di cipolle, ti assicuro, è la più buona di Parigi e mi hai ricordato che è da un sacco di tempo che non la cucino!”

Il ragazzo si guardava intorno nervosamente e alla fine accettò un panino, ma più che affamato pareva impaziente di andarsene.
“Non mi hai ancora detto come ti chiami”, disse lei
“Louis”, rispose il ragazzo “e tu?”
“Io sono Jeanne. Sei sicuro di non voler dormire qui?”
“No, grazie. Non mi sento a mio agio, sarà per un’altra volta”, rispose. Raccolse la sacca, il prezioso binocolo, il vecchio cappotto e infilò la porta mormorando un “grazie”, prima di sparire nel buio del pianerottolo.

La mattina dopo, uscendo dal portone, Jeanne non vide Louis al solito posto. Mentre pensierosa camminava verso la metro decise che avrebbe chiesto un permesso per uscire un po’ prima e sbrigare alcune faccende importanti. 

Quando rientrò lo trovò che la aspettava vicino al portone. “Hai tempo?”, le chiese. Lei aveva già risolto tutte le sue faccende e poteva certamente dedicargli qualche minuto. 

“Ieri mi hai fatto entrare a casa tua, oggi sarai tu a venire a casa mia!”, e così dicendo la guidò attraverso una serie di vicoli dove lei non aveva mai osato addentrarsi, fino ad uno spazio chiuso, seminascosto tra le pareti posteriori cieche di due alti palazzi. Un posto buio e maleodorante, dove decine di derelitti sedevano a terra o su giacigli improvvisati. Qua e là ardevano piccoli fuochi su cui bollivano bricchi luridi o si asciugavano vestiti umidi. Nessuno parlava e pochi alzarono lo sguardo verso la nuova arrivata. 

Jeanne era sconvolta: non avrebbe mai immaginato che a pochi passi dalla sua lussuosa casa potesse esserci un simile inferno in terra!

Louis notò il suo disagio e la guidò fuori, scusandosi. “Non ti scusare”, disse lei “sono io che dovrei farmi perdonare, per non essermi mai accorta prima di un fatto tanto grave!”

Lui la riaccompagnò fino alla strada principale, prima di dileguarsi nuovamente tra i vicoli. Jeanne sapeva già cosa doveva fare: estrasse il cellulare dalla borsa ed iniziò a fare una serie di lunghe telefonate, mentre non riusciva a smettere di pensare a quanto fosse veramente intollerabile che una simile marea di disperati vivesse in quelle condizioni inumane proprio lì, nell’indifferenza di tutti!
Le telefonate si protrassero fino a tarda sera e Jeanne si coricò molto più tardi del solito, stanca ma soddisfatta del proprio impegno verso il prossimo. 

Il mattino successivo uscì dal portone di casa con un’aria veramente gioiosa e soddisfatta. Pensava al piccolo Louis, che aveva tutto il diritto di veder arrivare la felicità, con quel suo bel binocolo da marinaio. Certo, non avrebbe potuto farlo, finché fosse rimasto in quel vicolo fetido, ma era certa che prima o poi sarebbe successo e forse quel giorno si sarebbe guardato indietro e si sarebbe certamente ricordato con gratitudine di lei. 
Nel pomeriggio aveva appuntamento con il carpentiere per le misure di una nuova porta blindata – un acquisto che rinviava ormai da troppo tempo – e più tardi anche con l’amministratore del condominio: era da così tanto che lui la tempestava di telefonate e messaggi perché desse il proprio assenso – ultima rimasta tra i condomini – all’assunzione di un portinaio per l’ingresso del palazzo, incosciente che era stata a non aver accettato prima!

Il rombo di un motore la distolse dai suoi pensieri: davanti ai suoi occhi sfrecciò l’ennesima camionetta della gendarmerie che andava ad aggiungersi alle altre, arrivate già alle prime luci del giorno e che lentamente si andavano riempiendo con il loro carico di disperati. 

Si ripromise di chiamare dall’ufficio l’amministratore dell’arrondissement: doveva assolutamente complimentarsi con lui per l’ottimo lavoro e, en passant, anche verificare discretamente che la stronzetta petulante fosse stata effettivamente licenziata come meritava. 
Le era venuta una gran voglia di zuppa di cipolle, la sua zuppa di cipolle, mica quella brodaglia insipida che ti propinano a Marsiglia.
Si appuntò mentalmente di fermarsi a comperare il necessario, sulla via del ritorno, e sorridente si avviò verso la metro.

Sole e tempesta

Il vento tiepido della sera portava già con sé le prime avvisaglie del temporale in arrivo, mentre Marco entrava nel locale.
Appoggiato al bancone consumato da generazioni di avventori si guardava distrattamente intorno, in attesa del suo ormai solito taj[1] di bianco: al tavolo accanto all’ingresso si stava consumando un’incandescente sfida a morra, con il vino che contribuiva a far crescere la temperatura dello scontro. Ad un altro tavolo erano invece in corso i consueti e più pacati ‘quattro raggi’ a briscola mentre i pochi altri frequentatori sedevano silenziosi ai propri soliti posti.

Arrivò il vino, Marco mise sul banco i soldi e stava per bere il primo sorso, quando una voce alle sue spalle lo gelò: “bevi così, da solo e senza nemmeno offrire?”.
Gino sorrideva sornione, seduto accanto a lui. Marco aggiunse con un sospiro le monete per il secondo calice. Sapeva che suo padre non era lì solo per bere, lo conosceva fin troppo bene: “çe fastu ca?[2] domandò con diffidente curiosità, senza nemmeno voltarsi a guardarlo.

Gino si prese tutto il tempo necessario, accennò un brindisi – al quale Marco rispose con un sorriso tirato – e bevve un lungo sorso. Un gesto lento e paziente, in netto contrasto con la furia del temporale che si stava preparando. “O vevi voie di fevelâ cun te[3], rispose alla fine.

Marco non rispose, continuava a guardare le montagne, le sue care montagne, che lentamente sparivano, inghiottite dalle nuvole. Qualche cupo brontolio in lontananza prometteva una notte più fresca, forse un’ora di riposo in più. Il calice freddo stretto in mano anticipava di qualche minuto quell’agognato ristoro.

Visto l’ostinato silenzio del figlio fu Gino a riprendere il discorso: “Hai coperto la vigna? Vjôt c’al fasarà tampieste[4].
“Papà, so fare il mio lavoro. Mi hai insegnato fin troppo bene” aspettava la stoccata, che infatti arrivò, anticipando di un secondo il primo tuono: “Non ti ho mica insegnato solo a lavorare, ma mi pare che tutto il resto te lo sei già dimenticato”.
Intuiva dove Gino volesse andare a parare. Sapeva bene che cosa non andasse nella sua vita: friulano fino al midollo, gravato dalla condanna dell’orgoglio perenne, del lavoro da finire ad ogni costo, del dovere prima di tutto e del piacere, forse, alla fine. Produceva un buon vino che vendeva a tutti e non assaggiava mai, viveva da solo in una bella casa di pietra, restaurata pazientemente in anni di sacrifici e l’unico piacere che si concedeva era quel calice di vino fresco, la sera, nell’osteria del paese. Aveva rinunciato a tutto, anche alle camminate in montagna, alle cime tanto amate, per quella vigna e quella casa, ma era orgoglioso delle sue scelte e dei suoi successi.
“Mi piace la mia vita, non mi manca niente!”, rispose stizzito.

Fuori il vento aumentava, portando con sé le prime gocce di pioggia. Gli ultimi numeri furono battuti sul tavolo, tra grida, risate e colorite bestemmie e i giocatori si affrettarono verso casa. Anche la briscola era quasi alla fine.

“E Caterina? Perché non la chiami mai?”

Eccola, la vera bastonata. Gino aveva sempre avuto la lingua affilata. Non che non avesse ragione – l’aveva quasi sempre, del resto – ma questo era proprio un colpo basso.
“Ho troppo da fare. E poi, perché non mi chiama lei? Si vede che non è interessata, ti pare?”
Il vino gli si stava riscaldando in mano e quella chiacchierata stava durando decisamente troppo, per i suoi gusti. Marco vuotò deciso il calice e si alzò per andarsene.

“Non ti ho insegnato a scappare davanti alle difficoltà! Dove stai andando?”
Marco tentennò: “Vado a dormire, domani ho da fare”.
“Hai sempre da fare. Sempre! È dura trovare sempre nuove scuse per non pensare, eh?”, Gino esercitava con dovizia il proprio sarcasmo. Conosceva bene i punti deboli del figlio e lo pungolava sapientemente.
La pioggia aumentava di intensità, lampi e tuoni si facevano più frequenti. Gino continuò: “Ma poi, dove vuoi andare, adesso? Non vedi come piove? Paje un altri taj e sentiti ju![5]
Rassegnato, Marco chiamò altri due calici e si sedette con un lungo sospiro.

Fuori pioveva sempre più violentemente. Lo scoppio dell’ennesimo tuono coprì il rumore del bicchiere che andava in frantumi a terra. Marco, gli occhi spalancati, fissava la porta di ingresso da dove, grondante di pioggia, Caterina ricambiava fieramente il suo sguardo.

La tempesta. Perfetta.

Si voltò furente, ma Gino non era più lì. Non c’era mai stato, in realtà: un infarto se l’era portato via cinque anni prima. Marco ricordava ancora chiaramente quella mattina. Era passato a salutarlo prima di andare a lavorare in vigna e Gino gli aveva detto: “Viôt di no piarditi. Ricuarditi simpri che tu ses le to vigne, e a le vigne i servis dût, soreli e tampieste, par fa’ un bon vin[6]
L’ambulanza era arrivata troppo tardi e quando Marco ripassò da lì, a ora di pranzo, Gino era già ‘andato avanti’, lasciandogli quelle oscure parole come unico commiato.

Caterina si avvicinò al bancone, evitò i cocci a terra, prese i due calici rimasti intatti davanti allo sgabello vuoto e ne porse uno a Marco, ancora assorto nei suoi tristi ricordi.
“Continui a pagare da bere ai tuoi fantasmi? Perché non torni tra i vivi? Mi manchi, lo sai?”

Mi manchi’: otto lettere, semplici, immediate, taglienti come rasoi, da poterci fare a pezzi anni di certezze granitiche come fossero burro.

Marco non riuscì a replicare: il fulmine successivo fece andare via la corrente. Si ritrovarono improvvisamente al buio, seduti uno di fronte all’altra, i calici in mano. Il tintinnio lieve di un brindisi appena accennato sovrastò magicamente per un attimo ogni altro rumore. Bevvero lentamente, gustando il vino ancora fresco.
Fuori, intanto, aveva iniziato a grandinare. “Diavolo di un Gino! Le sai sempre tutte, tu”, pensò Marco sorridendo nel buio, mentre sentiva gli occhi di Caterina fissi nei suoi.
Cercò la sua mano e la trovò subito, già in attesa nell’oscurità, già sicura del contatto imminente.
Parlarono, nel buio, a bassa voce. Mezz’ora non bastò a raccontarsi tutto di quel tempo perduto, ma la luce non ebbe ugualmente riguardo della loro intimità ritrovata e tornò a ferire gli occhi, interrompendo il flusso turbinante dei loro pensieri.

La grandine aveva intanto lasciato il posto ad una pioggia sottile, il vento calava, il temporale si allontanava piano. Era ora di andare a casa, a quella che forse, da lì in poi, sarebbe finalmente diventata una vera casa e non solo un posto in cui dormire.
Uscirono nell’aria fresca, le mani che si sfioravano appena, i pensieri avvinghiati come edere.
Marco gettò un ultimo sguardo dentro l’osteria: Gino, seduto al suo solito posto, sorrideva, una mano sollevata in segno di saluto. Gli sorrise di rimando, sussurrando un “grazie”.
Era un addio, lo capiva da sé, mentre sul suo viso le lacrime si mischiavano alle ormai rade gocce di pioggia.

Si sentì improvvisamente svuotato. Era quasi dispiaciuto che la sua personale tempesta stesse finendo così in fretta e ripensò a Gino, alle sue ultime parole: erano anni che ci rimuginava sopra ed ora, finalmente, ne coglieva il senso profondo.
Fece per parlare, ma Caterina lo anticipò: “Cosa fai domani? Ci sarà di sicuro bel tempo, vieni a fare una cima con me? È così tanto che non camminiamo assieme”.
Sorrise. La vigna avrebbe fatto a meno di lui, per un giorno.
Il primo di molti.


[1] In friulano, il taj è il classico bicchiere da vino

[2]Cosa fai tu qui?

[3]Avevo voglia di parlare con te

[4]Guarda che grandinerà

[5]Paga un altro calice e siediti!

[6]Attento a non perderti. Ricordati sempre che sei tu la tua vigna, e alla vigna servono sia sole che grandine, per fare un buon vino