Ma la finite di pavoneggiarvi con la vostra presunta bravura in cucina? La smettete di citare a sproposito quel gran genio dell’Artusi? Di riempirvi di boria criticando l’ultima puntata di Masterchef mentre cucinate minestrine insipide?
Che poi, in quanti l’avete letto veramente, l’Artusi? Sono certo che non più di cinque di voi sapranno elencarne qualche ricetta a memoria.
Prendiamo, che ne so, la ricetta del Kugelhupf, dolce tipico del nord-est, di grande eredità austroungarica.
Come lo so? Lo so. Accontentatevi. Mica vi devo raccontare tutto.
Ma torniamo a voi: quanti saprebbero farlo?
Nessuno risponde?
Paura come a scuola, vero? Quando vi nascondevate sotto il banco per evitare l’interrogazione… eh, lo so…
Perché l’Artusi, almeno il titolo, si cita sempre – fa così tanto figo! – ma poi, quando dovete mettervi ai fornelli per fare un dolce vi riducete sempre a fare la solita crostata con la solita pasta frolla pronta in rotolo e la solita confettura di albicocche finto bio del discount sotto casa. Lo so, eh se lo so!
E INVECE NO! La cucina va sudata, vissuta, è una missione per conto di dio! Il vostro dio è l’Artusi, “La scienza in cucina” il suo santo vangelo, io sono il vostro sergente Hartman e voi? Voi non siete né sarete mai nemmeno degni di accostarvici, che ve lo dico a fare? “Perché?” mi domanderete.
PERCHÉ?
Ma perché senza il robot da cucina – o almeno lo sbattitore – non sapreste nemmeno da dove iniziare!
Sbaglio? Davvero? E allora vediamo la ricetta e parliamone.
Iniziamo dagli ingredienti:
Farina d’Ungheria o finissima, grammi 200
Burro, grammi 100
Zucchero, grammi 50
Uva sultanina, grammi 50
Lievito di birra, grammi 30
Uova, uno intero e due rossi
Sale, un pizzico
Odore di scorza di limone
Latte, quanto basta
E già vi vedo, tutti pronti alla pugna nazional-salutista:
“TRE UOVA?!? Ma sono tantissime, per soli 200 grammi di farina!”;
“Il burro! Ma non lo si può sostituire con l’olio di oliva, o con lo yogurt, che è meno grasso?”
“Il colesterolo!”;
“Il fegato!”;
“Aita!”;
“Soccorso!”;
“Accorruomo!”
“La farina d’Ungheria? Ma non possiamo usare prodotti italiani?”
Ma vi devo pure rispondere? NO! Non si può!
Le uova non le potete diminuire, altrimenti il vostro dolce non sta insieme!
Il burro nei dolci lievitati è necessario – ma, che dico? INDISPENSABILE! – e non è certo più pesante di quei panini untuosi che mangiate al fast-food senza minimamente sentirvi in colpa – né pensare a quanto male ne direbbe l’Artusi, peraltro.
E poi la farina: scommetto che siete andati subito a cercare su google che cosa sia la ‘farina d’Ungheria‘ e la rete delle reti vi ha risposto che si tratta di ‘farina di grano, molto ricca di glutine, simile alla Manitoba’.
E via tutti a dire: “e allora usiamo la Manitoba! Mangiamo italiano!”.
Certo, come no, usando la farina fatta col grano canadese.
Complimenti. Bravi proprio.
Volete che andiamo avanti? Sicuri? Andiamo avanti, problemi vostri:
‘Intridete il lievito col latte tiepido e un pugno della detta farina per formare un piccolo pane piuttosto sodo; fategli un taglio in croce e ponetelo in una cazzarolina con un velo di latte sotto, coperta e vicina al fuoco, badando che questo non la scaldi troppo. […]’
Semplice, vero? E allora fatelo e poi ditemi com’è andata. Dai: vi aspetto al varco…
“Ma cosa vuol dire ‘piuttosto sodo’…?”
“Quanta farina è ‘un pugno’…?”
“Intridere…? Ma il lievito non si deve sciogliere?”
“Cosa vuol dire ‘latte, quanto basta’…?”
Eccoli lì. Ma perché chiedete? Non siete voi i genî del polsonetto? Quelli che dovrebbero andare a Masterchef un giorno sì e l’altro pure (ma poi non ci andate perché ‘eh, sai, il lavoro, i figli, la zia vedova…’). Non siete voi quelli che volevano aprire il ristorante ma che poi non l’hanno fatto ‘per non umiliare gli amici’…?
Che dire… siete altruisti da fare schifo! Dei veri boy scout! Volete anche la medaglia?
Comunque, visto che ne avete evidentemente bisogno: ‘un pugno’, ‘quanto basta’, ‘piuttosto sodo’ sono come il sale nell’acqua della pasta. Lo vorrete mica pesare, no?
E tanto vi basti. I cuochi siete voi.
‘Intridere’ è normale, se si usa il lievito di birra.
O pensavate forse di usare quel puzzolente lievito istantaneo in polvere con cui preparate in dieci minuti quelle vostre orrende pizze casalinghe che sanno di cartone?
Siamo seri, suvvia. Altrimenti non chiedete, anzi: non cucinate proprio, ché tanto non ne siete capaci.
Insomma, torniamo al nostro dolce: avete il vostro bel panetto di pasta lievitata – se fortunosamente non l’avete messo troppo vicino al fuoco e non l’avete bruciato (e comunque bastava metterlo nel forno con la sola luce accesa, ve lo dico ora che avete certamente già sbagliato perché in fondo anch’io ho un cuore) – e ora? E ora proseguiamo:
‘D’inverno sciogliete il burro a bagno-maria poi lavoratelo alquanto coll’uovo intero, indi versate lo zucchero e poi la farina, i rossi d’uovo, il sale e l’odore, mescolando bene. Ora, aggiungete il lievito che nel frattempo avrà già gonfiato e con cucchiaiate di latte tiepido, versate una alla volta, lavorate il composto con un mestolo entro a una catinella per più di mezz’ora riducendolo a una consistenza alquanto liquida, non però troppo […]’
“E in estate? Il burro lo devo fondere ugualmente?”
NO. In estate questo dolce non lo fai. È un dolce invernale, non lo vedi, genio? E infatti lo devi lavorare per più di mezz’ora. A mano, così risparmi pure sul riscaldamento.
Perché l’Artusi mica ce l’aveva l’impastatrice, nel 1800. Qui si vede il vero cuoco: quello che le cose le sa fare anche senza le macchine.
Anzi: SOPRATTUTTO senza le macchine, che diamine!
Ma perché lo chiedete a me, come si fa? Dovreste saperlo voi.
O senza la frusta-a-gancio-attaccata-sulla-planetaria non sapete nemmeno dove state di casa?
Lavorare! Muscoli! Movimento! Devo spiegarvi anche come impugnare il cucchiaio, razza di rammolliti?
‘Per ultimo versate l’uva e mettetelo in uno stampo liscio imburrato e spolverizzato di zucchero a velo misto a farina, ove il composto non raggiunga la metà del vaso che porrete ben coperto in caldana o in un luogo di temperatura tiepida a lievitare, al che ci vorranno due o tre ore. […]’
“TRE ORE?!? Ma io non ce l’ho tutto quel tempo! Devo portare mia figlia a danza/spostare il disco orario dell’auto parcheggiata in terza fila/andare a farmi i capelli/in palestra/dal dentista…”
E allora non fai i dolci in casa, ciccio. Vai in pasticceria, li trovi belli e fatti, li paghi un botto e ti perdi la soddisfazione.
Ma perché continuate a chiedere? E perché proprio a me? Che vi ho fatto?
‘Quando sarà ben cresciuto da arrivare alla bocca del vaso, mettetelo in forno a calore non troppo ardente, sformatelo diaccio, spolverizzatelo di zucchero a velo o se credete (questo è a piacere) annaffiatelo col rhum.‘
Scommetto che la parte del rhum è quella che vi è piaciuta di più.
No. Non ve la spiego, la battuta.
‘Fatelo raddoppiare di volume’, questo significa quando dice che l’impasto deve ‘crescere fino alla bocca del vaso’. Ma perché spreco ancora il mio tempo con voi?
‘Sformatelo diaccio’ significa che dovete farlo raffreddare nella sua teglia (e prima ancora deve intiepidire nel forno socchiuso, ché altrimenti ne fate una frittella)!
Perché cucinare è un’arte e la dovete imparare a forza di errori madornali! Come il soufflé sciolto di Sabrina, ve la ricordate, la Hepburn finta stordita che si dimenticava di accendere il forno mentre si sdilinquiva per William Holden, (senza immaginare peraltro che poi sarebbe finita dritta dritta nelle braccia di quell’altro sciupafemmine di Humphrey Bogart)?
Ecco. Ma non illudetevi: voi non siete nessuno dei tre.
E non sapete nemmeno cucinare.
Come lo so? Perché io ho letto l’Artusi, è ovvio!
E guai se non l’avessi fatto, perché altrimenti tutti questi bei consigli, oggi, chi ve li dava?
Però ora scusate, ma non ho altro tempo da perdere con voi, ché il microonde ha appena finito di scongelarmi la lasagna.
Non mi vorrete mica far perdere la sfida tra Cracco e Cannavacciuolo in TV, vero?