Il vento tiepido della sera portava già con sé le prime avvisaglie del temporale in arrivo, mentre Marco entrava nel locale.
Appoggiato al bancone consumato da generazioni di avventori si guardava distrattamente intorno, in attesa del suo ormai solito taj[1] di bianco: al tavolo accanto all’ingresso si stava consumando un’incandescente sfida a morra, con il vino che contribuiva a far crescere la temperatura dello scontro. Ad un altro tavolo erano invece in corso i consueti e più pacati ‘quattro raggi’ a briscola mentre i pochi altri frequentatori sedevano silenziosi ai propri soliti posti.
Arrivò il vino, Marco mise sul banco i soldi e stava per bere il primo sorso, quando una voce alle sue spalle lo gelò: “bevi così, da solo e senza nemmeno offrire?”.
Gino sorrideva sornione, seduto accanto a lui. Marco aggiunse con un sospiro le monete per il secondo calice. Sapeva che suo padre non era lì solo per bere, lo conosceva fin troppo bene: “çe fastu ca?”[2] domandò con diffidente curiosità, senza nemmeno voltarsi a guardarlo.
Gino si prese tutto il tempo necessario, accennò un brindisi – al quale Marco rispose con un sorriso tirato – e bevve un lungo sorso. Un gesto lento e paziente, in netto contrasto con la furia del temporale che si stava preparando. “O vevi voie di fevelâ cun te”[3], rispose alla fine.
Marco non rispose, continuava a guardare le montagne, le sue care montagne, che lentamente sparivano, inghiottite dalle nuvole. Qualche cupo brontolio in lontananza prometteva una notte più fresca, forse un’ora di riposo in più. Il calice freddo stretto in mano anticipava di qualche minuto quell’agognato ristoro.
Visto l’ostinato silenzio del figlio fu Gino a riprendere il discorso: “Hai coperto la vigna? Vjôt c’al fasarà tampieste”[4].
“Papà, so fare il mio lavoro. Mi hai insegnato fin troppo bene” aspettava la stoccata, che infatti arrivò, anticipando di un secondo il primo tuono: “Non ti ho mica insegnato solo a lavorare, ma mi pare che tutto il resto te lo sei già dimenticato”.
Intuiva dove Gino volesse andare a parare. Sapeva bene che cosa non andasse nella sua vita: friulano fino al midollo, gravato dalla condanna dell’orgoglio perenne, del lavoro da finire ad ogni costo, del dovere prima di tutto e del piacere, forse, alla fine. Produceva un buon vino che vendeva a tutti e non assaggiava mai, viveva da solo in una bella casa di pietra, restaurata pazientemente in anni di sacrifici e l’unico piacere che si concedeva era quel calice di vino fresco, la sera, nell’osteria del paese. Aveva rinunciato a tutto, anche alle camminate in montagna, alle cime tanto amate, per quella vigna e quella casa, ma era orgoglioso delle sue scelte e dei suoi successi.
“Mi piace la mia vita, non mi manca niente!”, rispose stizzito.
Fuori il vento aumentava, portando con sé le prime gocce di pioggia. Gli ultimi numeri furono battuti sul tavolo, tra grida, risate e colorite bestemmie e i giocatori si affrettarono verso casa. Anche la briscola era quasi alla fine.
“E Caterina? Perché non la chiami mai?”
Eccola, la vera bastonata. Gino aveva sempre avuto la lingua affilata. Non che non avesse ragione – l’aveva quasi sempre, del resto – ma questo era proprio un colpo basso.
“Ho troppo da fare. E poi, perché non mi chiama lei? Si vede che non è interessata, ti pare?”
Il vino gli si stava riscaldando in mano e quella chiacchierata stava durando decisamente troppo, per i suoi gusti. Marco vuotò deciso il calice e si alzò per andarsene.
“Non ti ho insegnato a scappare davanti alle difficoltà! Dove stai andando?”
Marco tentennò: “Vado a dormire, domani ho da fare”.
“Hai sempre da fare. Sempre! È dura trovare sempre nuove scuse per non pensare, eh?”, Gino esercitava con dovizia il proprio sarcasmo. Conosceva bene i punti deboli del figlio e lo pungolava sapientemente.
La pioggia aumentava di intensità, lampi e tuoni si facevano più frequenti. Gino continuò: “Ma poi, dove vuoi andare, adesso? Non vedi come piove? Paje un altri taj e sentiti ju!”[5]
Rassegnato, Marco chiamò altri due calici e si sedette con un lungo sospiro.
Fuori pioveva sempre più violentemente. Lo scoppio dell’ennesimo tuono coprì il rumore del bicchiere che andava in frantumi a terra. Marco, gli occhi spalancati, fissava la porta di ingresso da dove, grondante di pioggia, Caterina ricambiava fieramente il suo sguardo.
La tempesta. Perfetta.
Si voltò furente, ma Gino non era più lì. Non c’era mai stato, in realtà: un infarto se l’era portato via cinque anni prima. Marco ricordava ancora chiaramente quella mattina. Era passato a salutarlo prima di andare a lavorare in vigna e Gino gli aveva detto: “Viôt di no piarditi. Ricuarditi simpri che tu ses le to vigne, e a le vigne i servis dût, soreli e tampieste, par fa’ un bon vin”[6]
L’ambulanza era arrivata troppo tardi e quando Marco ripassò da lì, a ora di pranzo, Gino era già ‘andato avanti’, lasciandogli quelle oscure parole come unico commiato.
Caterina si avvicinò al bancone, evitò i cocci a terra, prese i due calici rimasti intatti davanti allo sgabello vuoto e ne porse uno a Marco, ancora assorto nei suoi tristi ricordi.
“Continui a pagare da bere ai tuoi fantasmi? Perché non torni tra i vivi? Mi manchi, lo sai?”
‘Mi manchi’: otto lettere, semplici, immediate, taglienti come rasoi, da poterci fare a pezzi anni di certezze granitiche come fossero burro.
Marco non riuscì a replicare: il fulmine successivo fece andare via la corrente. Si ritrovarono improvvisamente al buio, seduti uno di fronte all’altra, i calici in mano. Il tintinnio lieve di un brindisi appena accennato sovrastò magicamente per un attimo ogni altro rumore. Bevvero lentamente, gustando il vino ancora fresco.
Fuori, intanto, aveva iniziato a grandinare. “Diavolo di un Gino! Le sai sempre tutte, tu”, pensò Marco sorridendo nel buio, mentre sentiva gli occhi di Caterina fissi nei suoi.
Cercò la sua mano e la trovò subito, già in attesa nell’oscurità, già sicura del contatto imminente.
Parlarono, nel buio, a bassa voce. Mezz’ora non bastò a raccontarsi tutto di quel tempo perduto, ma la luce non ebbe ugualmente riguardo della loro intimità ritrovata e tornò a ferire gli occhi, interrompendo il flusso turbinante dei loro pensieri.
La grandine aveva intanto lasciato il posto ad una pioggia sottile, il vento calava, il temporale si allontanava piano. Era ora di andare a casa, a quella che forse, da lì in poi, sarebbe finalmente diventata una vera casa e non solo un posto in cui dormire.
Uscirono nell’aria fresca, le mani che si sfioravano appena, i pensieri avvinghiati come edere.
Marco gettò un ultimo sguardo dentro l’osteria: Gino, seduto al suo solito posto, sorrideva, una mano sollevata in segno di saluto. Gli sorrise di rimando, sussurrando un “grazie”.
Era un addio, lo capiva da sé, mentre sul suo viso le lacrime si mischiavano alle ormai rade gocce di pioggia.
Si sentì improvvisamente svuotato. Era quasi dispiaciuto che la sua personale tempesta stesse finendo così in fretta e ripensò a Gino, alle sue ultime parole: erano anni che ci rimuginava sopra ed ora, finalmente, ne coglieva il senso profondo.
Fece per parlare, ma Caterina lo anticipò: “Cosa fai domani? Ci sarà di sicuro bel tempo, vieni a fare una cima con me? È così tanto che non camminiamo assieme”.
Sorrise. La vigna avrebbe fatto a meno di lui, per un giorno.
Il primo di molti.
[1] In friulano, il taj è il classico bicchiere da vino
[2] “Cosa fai tu qui?”
[3] “Avevo voglia di parlare con te”
[4] “Guarda che grandinerà”
[5] “Paga un altro calice e siediti!”
[6] “Attento a non perderti. Ricordati sempre che sei tu la tua vigna, e alla vigna servono sia sole che grandine, per fare un buon vino”