Ah, Paris!

Jeanne uscì dal portone del palazzo e gettò uno sguardo soddisfatto attorno a se’.
Certo, Parigi era tutta bella, ma quella zona era un vero bijou: poco traffico, molte zone verdi, palazzi signorili e… il sorriso le si spense sulle labbra, mentre lo sguardo si posava su un punto dall’altro lato della strada dove, in una nicchia tra due bei palazzi notò ancora quel mucchio di stracci abbandonato. Aveva già scritto una mail piuttosto seccata alla segreteria dell’arrondissement, il giorno precedente, spiegando che un così bel quartiere non poteva certo essere lasciato all’incuria e all’inciviltà e augurandosi che si prendessero subito provvedimenti in merito, ma evidentemente la pulizia di un angolo tanto bello e signorile della città non era tra le priorità dell’amministrazione. 

Le sarebbe toccato sollecitare, magari con una telefonata. Già si immaginava il penoso colloquio con la segretaria – quell’inutile ochetta con più tette che neuroni – ma quel che era necessario andava fatto. Decise che avrebbe chiamato non appena arrivata in ufficio e rinfrancata all’idea di dare il proprio nobile contributo alla civiltà di quel posto benedetto da Dio, girò i tacchi e si avviò decisa verso la metro

Al telefono, la segretaria le stava spiegando con quel suo tono petulante che l’arrondissement era grande e non si poteva certo pretendere che ogni problema venisse risolto seduta stante, ma Jeanne non la lasciò finire la frase e le disse che avrebbe parlato direttamente con l’amministratore Chartroux, se necessario, pur di far sparire immediatamente quello scempio. 
La segretaria ammutolì, deglutì rumorosamente e poi, con un profondo sospiro, si scusò e disse che avrebbe mandato il giorno stesso qualcuno a controllare la situazione.

Soddisfatta per l’esito della chiamata, Jeanne si dedicò al suo lavoro e la giornata trascorse in fretta, nonostante la fremente eccitazione al pensiero che finalmente quell’angolo di fronte a casa sua sarebbe tornato pulito e presentabile, come era giusto che fosse. 

Scese dalla metro e si affrettò verso casa per vedere il risultato della sua paziente ma laboriosa attesa. Girò l’angolo e per la sorpresa fece quasi cadere la borsetta a terra: quello schifo era ancora lì! Peggio: lo avevano malamente spostato, forse sperando di nasconderlo. Furente, decise che avrebbe fatto da se’, spedendo poi un eloquente resoconto fotografico all’amministratore Chartroux. Attraversò la strada e puntò decisa verso quell’orrore. Stava ancora cercando i guanti “usa e getta” che portava sempre nella borsetta, quando alzando lo sguardo si accorse che quel mucchio informe di stracci era… una persona!

Un ragazzino, per la precisione, che non doveva avere più di 12-13 anni, sporco e maleodorante, rannicchiato in quel cappotto troppo grande per lui. Jeanne restò impietrita a fissarlo per qualche secondo, finché anche lui si accorse della sua presenza e si girò a guardarla. Dopo averla studiata per un po’, tese la mano e le chiese a mezza voce se avesse degli spiccioli, o magari una sigaretta. “Ma sentilo, una sigaretta! Sei pazzo?” – replicò lei con la voce resa stridula dalla rabbia – “Tu non dovresti fumare, alla tua età!” indietreggiava mentre parlava, con gli occhi sbarrati, come se avesse visto il demonio in persona. Estrasse il telefono e compose il numero della gendarmerie mentre il ragazzo, intuita la mala parata, si alzava e scappava via, sparendo subito dietro l’angolo del palazzo. 

Jeanne rimase lì ancora per qualche secondo e poi riattraversò di corsa la strada, infilandosi ansimante nel portone. A casa si fece un lungo bagno caldo, per togliersi dalle narici quel terribile odore, cenò e si mise a letto, pensierosa.
Dormì poco e male e al mattino successivo uscì senza nemmeno fare colazione, ma appena fuori dal portone si calmò immediatamente: dall’altro lato della strada, la nicchia tra i due palazzi era vuota, quel mendicante doveva aver capito l’antifona ed era andato a disturbare da un’altra parte. “Meglio così, anche se…”
Rimase pensierosa per un attimo, poi scacciò ogni dubbio, e si avviò di buon passo.

Quando però nel pomeriggio rientrò a casa le sembrò di ripiombare in un incubo: il ragazzino puzzolente era di nuovo là! Decise di affrontare la situazione di petto: attraversò la strada, respirando a fondo per mantenere la calma, e gli si parò davanti con lo sguardo furente: “Cosa ci fa un ragazzino come te in mezzo alla strada? Non ce li hai dei genitori?”
“Ah, sei ancora tu?”, disse lui, guardandola con aria di sfida, “mi hai portato delle sigarette?”
“No, non ti ho portato nessuna sigaretta, rispondi alla mia domanda!”, si infuriò Jeanne.  
Di fronte a tanta rabbia, il ragazzo sembrò tornare in se’, si appoggiò all’indietro e iniziò a parlare, con l’aria di chi quella stessa storia l’aveva già raccontata altre mille volte: “L’ultima volta che lo vidi, papà si stava imbarcando su una di quelle grosse navi che stanno via mesi e mesi. Poi mamma si è ammalata ed è morta. Ad un certo punto papà ha smesso di chiamare e soldi non ne sono più arrivati. Lì a Marsiglia non potevo più starci, anche perché avevo paura che prima o poi avrebbero capito che vivevo da solo e sarebbero venuti a prendermi per portarmi in un orfanotrofio, così ho messo in una borsa ciò che poteva essermi utile e sono fuggito.”

Jeanne si sentiva come se stesse osservando la scena dall’esterno e improvvisamente si sentì dire: “Credo di poterti aiutare. Seguimi”.

Lui tentennò, immaginando di trovare la gendarmerie appostata dietro qualche angolo, ma alla fine si fece convincere. Jeanne vinse il ribrezzo che quell’odore le causava e se lo portò in casa. Lo fece restare nell’ingresso, mentre si toglieva il soprabito e quando tornò lo trovò seduto a terra. Pensò per un attimo al povero tappeto – un autentico Gabeh afgano – a contatto con quei vestiti luridi, ma si riscosse subito: “Ti va di darti una ripulita? Ti preparo un bel bagno caldo e ti potrai mettere dei vestiti puliti, così questi li buttiamo via”. Lui la guardò sospettoso: “Il cappotto non lo toccare, questo resta con me!”
“Va bene”, rispose lei, conciliante “ma fammelo almeno lavare”.
“Vedremo”, disse. Stava iniziando a toglierlo quando Jeanne intravide un luccichio, sotto i vestiti sporchi e subito esclamò: “Ma come? Sei qui da cinque minuti e già stai tentando di rubarmi qualcosa? Fammi vedere subito cos’hai preso!”
Lui scattò in piedi e si richiuse a riccio nel cappotto: “Non ti ho rubato niente! Non c’è niente che mi interessi, qui!”
“E allora cos’è che luccica, lì sotto?”, urlò lei.
Lui si bloccò, una mano già sulla maniglia della porta. Sospirò, fece un passo indietro, infilò una mano sotto il cappotto ed estrasse di malavoglia un piccolo binocolo di ottone. Sembrava un oggetto da marinaio: “me l’aveva regalato papà, dopo uno dei suoi viaggi”, confermò lui, “Diceva che la felicità arriva da lontano e devi poterla vedere per tempo, se vuoi prenderla al volo”.

Jeanne si calmò di colpo, era quasi commossa. Gli fece strada verso il bagno e lo lasciò lì, mentre andava a cercare dei vestiti adatti.

Quello che uscì dal bagno mezz’ora dopo, pulito e profumato, avvolto nell’accappatoio morbido pareva un altro ragazzo. Jeanne gli aveva preparato dei vestiti puliti da indossare subito e una sacca con dei ricambi: “questi ti dovrebbero durare per un po’ ” disse. Lui la guardò con lo stesso sguardo sospettoso di prima: “Perché lo fai? Da dove viene questa roba? Era dei tuoi figli?”
Jeanne rise: “No, io non ho figli, non sono nemmeno sposata. Ma collaboro da tempo con le Dame di carità, le conosci?” Lui fece di sì con la testa: ogni tanto era andato a mangiare da loro, vicino a Nôtre Dame. “Giusto l’altro ieri ho ricevuto una donazione di abiti usati da una famiglia qui vicino e ricordavo ci fosse qualcosa della tua taglia. Vuoi mangiare qualcosa? Non ti manca un pasto caldo?”
Gli occhi del ragazzo si addolcirono per un attimo, mentre spiegava quanto gli mancasse la zuppa di cipolle di sua madre. Jeanne lo guardò dolcemente: “la mia zuppa di cipolle, ti assicuro, è la più buona di Parigi e mi hai ricordato che è da un sacco di tempo che non la cucino!”

Il ragazzo si guardava intorno nervosamente e alla fine accettò un panino, ma più che affamato pareva impaziente di andarsene.
“Non mi hai ancora detto come ti chiami”, disse lei
“Louis”, rispose il ragazzo “e tu?”
“Io sono Jeanne. Sei sicuro di non voler dormire qui?”
“No, grazie. Non mi sento a mio agio, sarà per un’altra volta”, rispose. Raccolse la sacca, il prezioso binocolo, il vecchio cappotto e infilò la porta mormorando un “grazie”, prima di sparire nel buio del pianerottolo.

La mattina dopo, uscendo dal portone, Jeanne non vide Louis al solito posto. Mentre pensierosa camminava verso la metro decise che avrebbe chiesto un permesso per uscire un po’ prima e sbrigare alcune faccende importanti. 

Quando rientrò lo trovò che la aspettava vicino al portone. “Hai tempo?”, le chiese. Lei aveva già risolto tutte le sue faccende e poteva certamente dedicargli qualche minuto. 

“Ieri mi hai fatto entrare a casa tua, oggi sarai tu a venire a casa mia!”, e così dicendo la guidò attraverso una serie di vicoli dove lei non aveva mai osato addentrarsi, fino ad uno spazio chiuso, seminascosto tra le pareti posteriori cieche di due alti palazzi. Un posto buio e maleodorante, dove decine di derelitti sedevano a terra o su giacigli improvvisati. Qua e là ardevano piccoli fuochi su cui bollivano bricchi luridi o si asciugavano vestiti umidi. Nessuno parlava e pochi alzarono lo sguardo verso la nuova arrivata. 

Jeanne era sconvolta: non avrebbe mai immaginato che a pochi passi dalla sua lussuosa casa potesse esserci un simile inferno in terra!

Louis notò il suo disagio e la guidò fuori, scusandosi. “Non ti scusare”, disse lei “sono io che dovrei farmi perdonare, per non essermi mai accorta prima di un fatto tanto grave!”

Lui la riaccompagnò fino alla strada principale, prima di dileguarsi nuovamente tra i vicoli. Jeanne sapeva già cosa doveva fare: estrasse il cellulare dalla borsa ed iniziò a fare una serie di lunghe telefonate, mentre non riusciva a smettere di pensare a quanto fosse veramente intollerabile che una simile marea di disperati vivesse in quelle condizioni inumane proprio lì, nell’indifferenza di tutti!
Le telefonate si protrassero fino a tarda sera e Jeanne si coricò molto più tardi del solito, stanca ma soddisfatta del proprio impegno verso il prossimo. 

Il mattino successivo uscì dal portone di casa con un’aria veramente gioiosa e soddisfatta. Pensava al piccolo Louis, che aveva tutto il diritto di veder arrivare la felicità, con quel suo bel binocolo da marinaio. Certo, non avrebbe potuto farlo, finché fosse rimasto in quel vicolo fetido, ma era certa che prima o poi sarebbe successo e forse quel giorno si sarebbe guardato indietro e si sarebbe certamente ricordato con gratitudine di lei. 
Nel pomeriggio aveva appuntamento con il carpentiere per le misure di una nuova porta blindata – un acquisto che rinviava ormai da troppo tempo – e più tardi anche con l’amministratore del condominio: era da così tanto che lui la tempestava di telefonate e messaggi perché desse il proprio assenso – ultima rimasta tra i condomini – all’assunzione di un portinaio per l’ingresso del palazzo, incosciente che era stata a non aver accettato prima!

Il rombo di un motore la distolse dai suoi pensieri: davanti ai suoi occhi sfrecciò l’ennesima camionetta della gendarmerie che andava ad aggiungersi alle altre, arrivate già alle prime luci del giorno e che lentamente si andavano riempiendo con il loro carico di disperati. 

Si ripromise di chiamare dall’ufficio l’amministratore dell’arrondissement: doveva assolutamente complimentarsi con lui per l’ottimo lavoro e, en passant, anche verificare discretamente che la stronzetta petulante fosse stata effettivamente licenziata come meritava. 
Le era venuta una gran voglia di zuppa di cipolle, la sua zuppa di cipolle, mica quella brodaglia insipida che ti propinano a Marsiglia.
Si appuntò mentalmente di fermarsi a comperare il necessario, sulla via del ritorno, e sorridente si avviò verso la metro.

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