Notte del solstizio, la più breve dell’anno. Il chiarore che si fa strada all’orizzonte, il cielo nero che si colora in una serie infinita e irripetibile di sfumature mentre le stelle si perdono sullo sfondo.
Loris amava quei momenti, ma più di ogni altra cosa amava l’attimo in cui il mondo sembra ripartire da zero, quando, nella luce che aumenta, il silenzio improvvisamente si spezza nel canto di mille volatili che pare si sveglino tutti assieme e la termica che sale decisa dal fondovalle annuncia l’arrivo imminente dell’alba.
Seduto su una panca fuori dal rifugio “Pelizzo” aspettava che i primi raggi del sole spuntassero da dietro le creste dei monti. Quella era la sua ricompensa, dopo una nottata di lavoro. Lavorava in fonderia, a Cividale, un lavoro faticoso, usurante, triste, ma lui a 26 anni si sentiva ancora forte e in grado di sopportare tutto. Tutto in cambio di un’alba, per ricominciare a vivere ogni mattina.
Era la felicità di tutti i suoi colleghi, Loris: da quando iniziava la bella stagione e fino all’autunno inoltrato chiedeva sempre i turni di notte, quelli che nessuno voleva fare, per avere la mattina libera e salire sul Matajur a vedere l’alba.
Alcuni bonariamente lo prendevano in giro: “Ciriti une morose, no pierdi timp su pal Matajur!“[1].
Lui sorrideva, scrollava le spalle e andava via, ché non voleva correre per strada: voleva arrivare per tempo al rifugio, lasciare la macchina e dimenticarsi per un’ora il buio, il caldo, gli spazi chiusi, il rumore, l’odore di acciaio, olio e ruggine. Non ricordava di aver mai avuto grande attrazione per le ragazze, né gli interessava cominciare ora, diceva.
Paola arrivò al parcheggio, scese dall’auto e si avvicinò silenziosa. Si sedette all’altra estremità della panca, attenta a non turbare il momento. Rimasero lì a guardare il cielo, muti, ché ogni parola sarebbe stata di troppo. Spuntarono finalmente i primi raggi del sole a illuminare i loro visi. Allora lei prese coraggio e a mezza voce disse: “Che spettacolo!”
Lui quasi non girò la testa, con gli occhi socchiusi fece un mezzo sorriso e annuì. Poi si alzò e con passi lenti, lo sguardo fisso verso il sole, si incamminò un po’ zoppicante verso il parcheggio.
Paola, gli occhi già gonfi di lacrime, lo guardava allontanarsi verso la sua vecchia Golf scassata, quella stessa auto con cui Loris era volato giù dal penultimo tornante del Matajur, giusto tre anni prima. Nessuno aveva capito come fosse successo, Loris era un guidatore prudente, forse un colpo di sonno. Quando aveva detto ai colleghi che sarebbe salito lassù a vedere l’alba del solstizio qualcuno lo aveva sconsigliato: “Sarai stanco, perché non vai a casa a dormire, invece?”, ma lui non ascoltò nessuno. In auto aveva già messo la macchina fotografica e un thermos di caffè, che non bastò.
Sei mesi di ospedale, tre in coma, e poi quel responso: “Danno post-traumatico semipermanente della memoria rievocativa. Disturbo esteso della memoria di fissazione con amnesie anterograde. Si rinvia a successive periodiche rivalutazioni per eventuale reversibilità dei fenomeni riscontrati“.
Amnesia, dunque. Come spesso aveva visto in quei vecchi film polizieschi che tanto aveva amato, Loris ricordava poco o nulla della vita prima dell’incidente: i suoi genitori, la casa in cui viveva, il lavoro. Di Paola nemmeno un accenno, eppure era dall’ultimo anno delle superiori che stavano insieme. L’aveva guardata con occhi smarriti dal proprio letto di ospedale, rivolgendo poi lo stesso muto sguardo interrogativo a sua madre che con tutta la dolcezza del mondo gli aveva risposto: “Ma è Paola, non te la ricordi?”.
No, non se la ricordava. Cancellata, un viso tra tanti. Quattro anni spariti nel nulla, come un rivolo d’acqua assorbito dalla terra riarsa.
Ma la seconda parte della diagnosi era, se possibile, ancora più disperante: Loris non tratteneva i ricordi recenti. Tutto ciò che non faceva strettamente parte della sua collaudata routine quotidiana si azzerava ogni giorno, come un nastro continuamente riavvolto e fatto ripartire da capo.
I medici avevano raccomandato di mantenere il più possibile invariato l’andamento delle sue giornate, per aiutarlo a ricrearsi una quotidianità da ricordare stabilmente. Perché quella, a lungo andare, sarebbe potuta essere la chiave di volta: l’unico modo per lui di riprendersi almeno in parte i suoi ricordi e forse, un giorno, di riuscire a ricostruire anche quelli più lontani.
Il padre aveva speso una fortuna per far riparare l’auto e restituirgli un pezzo di memoria; la fonderia aveva assecondato tutte le sue richieste riguardo agli orari e lo aveva reinserito nel ciclo produttivo, che lui peraltro dimostrava di ricordare bene. C’era poi quell’appuntamento di ogni mattina sul Matajur, forse un retaggio inconscio dell’ultima esperienza vissuta prima di schiantarsi in quella scarpata assieme a tutti i suoi ricordi, che lui ripeteva come un disco rotto finché il freddo e il ghiaccio sulla strada non glielo impedivano.
Paola aveva provato in tutti i modi ad inserirsi in quelle giornate tutte uguali, per risvegliare i ricordi dell’affetto e delle premure, dei libri letti assieme, dei viaggi, dei progetti. Ma lui sembrava rivestito di una corazza impenetrabile: la teneva a distanza come fosse un’estranea, senza mai dare segno di riconoscerla e dimenticandosi fatalmente ogni giorno dei loro incontri precedenti.
Paola attese, come ogni mattina, di sentir chiudere la portiera dell’auto, poi emise un triste sospiro che subito si ruppe in pianto: sentiva su di se’ tutto il peso di quella “eventuale reversibilità” che a conti fatti, dopo quasi tre anni di tentativi andati a vuoto, sentiva sempre più lontana e irraggiungibile.
Sola su quella panca singhiozzava col viso tra le mani, tanto da non accorgersi che la Golf quella mattina non era ripartita.
Rimase lì per un tempo indefinito. Poi improvvisamente si riscosse: si stava facendo tardi e c’erano le solite cento cose da fare, prima dell’alba successiva. Aprì la borsa per cercare un fazzoletto e si bloccò, impietrita a guardare Loris, fermo in piedi davanti a lei, che a sua volta la squadrava, come incuriosito da una novità imprevista.
“Stai male?”, le chiese. “Posso fare qualcosa?”
La sua voce! Era la prima volta che la risentiva, dopo tutto quel tempo da completi estranei. Le mani annasparono nel vuoto, mentre la borsa rotolava a terra, Paola fece di no con la testa, sforzandosi di sorridere in un poco convincente tentativo di negare la realtà.
Si asciugò frettolosamente gli occhi col dorso della mano, mentre continuava a fissarlo, a bocca aperta. Si sentiva sciocca: aveva tanto atteso quel momento, avrebbe avuto così tanto da dirgli, ma le parole non riuscivano a superare la barriera dell’emozione.
Lui sembrava intento a studiarla, la testa leggermente piegata da un lato, un riflesso diverso negli occhi, come uno spiraglio di luce da una porta socchiusa: “Ma sai che mi sembra di conoscerti? Non è che ci siamo già visti da qualche parte?”.
“Può essere”, rispose lei prudente, la voce ancora rotta dal pianto di poco prima, un vero sorriso che finalmente si faceva strada sul viso, increspandole dolcemente le labbra.
Loris le si inginocchiò davanti, raccolse la borsa porgendogliela con un sorriso timido: “Io torno qui anche domani. Perché non vieni anche tu?”
[1] “Ma cercati una fidanzata, invece che perdere tempo sul Matajur!”