“Ehi! Numero uno! Numero uno! Ehi!”
Non lontano da me, immerso in una strana luce azzurra, un uccellino continua a pigolare e chiamarmi “numero uno”. Mi fissa e insiste, petulante, finché i miei occhi si aprono a fissare quel ”6:30” giallo oro che brilla dal comodino, sullo sfondo illuminato di azzurro della sveglia, e mi ferisce gli occhi, che ancora faticano a riemergere dal sonno.
Mi alzo, col pilota automatico innestato, spengo la sveglia e mi infilo subito in doccia, ancora perplesso per quello strano sogno, ma ora non ho tempo per pensarci.
Preparo un caffè bello forte e tiro fuori qualcosa di commestibile dal frigo. Mi soffermo di nuovo sull’uccellino del sogno, il pensiero corre sempre lì ogni volta che rallento il ritmo, ma oggi non è giornata: “Dai, Freud! Il treno non aspetta, i sogni li analizzi ‘stasera!” e mi rimetto in moto. Lavo rapidamente la tazza e la caffettiera, rimetto tutto in ordine e mi vesto per uscire. Le sette in punto, ho ancora due ore. Lascio scorrere lo sguardo sull’ordine perfetto di casa mia e ridacchiando tra me, come per scacciare definitivamente il pensiero, mi dico che qui non ci vorrei avere nessuno, oltre a me, figurati un uccellino!
Infilo in valigia le ultime cose, la chiudo, metto lo zainetto in spalla e scendo in strada. Il furgone bianco è parcheggiato poco lontano: lo raggiungo, carico la valigia e lo zaino sui sedili anteriori e parto. Devo ancora passare dall’ufficio, prima di andare in stazione. Anche per strada continuo a rimuginare su quel “numero uno” che proprio non mi si addice: le attenzioni e la popolarità le ho sempre schivate come la peste, fin da ragazzino. Però nel mio lavoro sono bravo, lo so. Probabilmente lo immagina anche Fausto, il mio capo, ma si guarda bene dal riconoscerlo, forse teme che possa tramare per fargli le scarpe. Nulla di più sbagliato, io sto benissimo così: se le tenga pure le riunioni pallose, le responsabilità e le mille scartoffie.
Ho scelto di studiare chimica perché è un mestiere da solitari, in fondo. Se avessi voluto la popolarità avrei studiato economia o scienze politiche, una comoda e facile carriera in qualche ente pubblico o come commercialista, magari con una capatina in politica… no, non fa per me: molto più interessante essere il numero uno di un oscuro laboratorio chimico dove nessuno verrà mai a chiederti cosa fai, dove hai a che fare con gli elementi chimici e non con le persone.
Gli elementi non ti chiedono nulla, non vogliono nulla da te: devi solo sapere come trattarli, conoscerne i dosaggi precisi, rispettare la loro natura – a volte schiva, altre irruente – e usarli con rispetto. E un laboratorio è un posto dove ti guadagni la fiducia di tutti perché sei serio, preciso, affidabile, non ti distrai mai. Infatti, Fausto ben presto mi ha lasciato le chiavi permettendomi di entrare e uscire a mio piacimento, a qualunque ora, come oggi.
Parcheggio davanti all’edificio: non c’è ancora nessuno, meglio così. Entro di corsa e vado alla mia postazione: raccolgo due bottigliette di plastica dalla scrivania e le infilo nello zainetto, infine controllo i risultati dell’ultima simulazione, cancello i dati e spengo il pc.
Rapido e indolore, richiudo tutto e torno al furgone.
Mi avvio verso la stazione, finalmente! Per quanto abbia fatto tutto di corsa sono già quasi le otto, ma ho ancora un po’ di margine. Parcheggio sul retro: è un po’ più lontano, ma non c’è disco orario. Giro un po’ per lo spiazzo: c’è un posto libero proprio accanto al parcheggio per i mezzi di soccorso. Mi ci infilo, stando ben attento a non invadere la zona vietata, scarico tutto, chiudo il furgone e vado.
Lascio subito la valigia al deposito bagagli – non ho voglia di trascinarmela dietro per mezza stazione – e mi avvio verso il bagno lungo il binario. Riempio la mia bottiglia d’acqua e lascio nel cestino le due che ho raccolto in ufficio.
Le otto e venti.
Ora mi merito proprio un caffè.
Per arrivare al bar devo passare davanti all’ufficio del responsabile sicurezza. Fulvio Neri, mio fratello. Lui sì è un numero uno: il primo della classe, il più bello, atletico, educato, gentile, l’anima di tutte le feste (le stesse che io schivavo con disgusto), il sogno proibito di tutte le ragazze della scuola e il traguardo, sempre troppo lontano e irraggiungibile, per molti suoi coetanei dell’epoca.
Alla fine però si è accontentato: è entrato in ferrovia facendo carriera per quanto i suoi titoli e la sua onestà gli consentissero, non un passo in più.
La testa sempre ben piantata sulle spalle, mai un guizzo, mai un passo fuori dagli schemi, un solitario anche lui, alla fine, anche se di un tipo diverso da me: io almeno non fingo.
Sbircio attraverso il vetro smerigliato: luci spente, scrivania vuota. Non è ancora arrivato, strano. “Se cerca l’ingegnere, oggi arriva più tardi” una voce alle mie spalle mi fa sobbalzare. Mi volto e fisso per un attimo quello che probabilmente è il capostazione, a giudicare dalla divisa.
“Vuole che gli riferisca qualcosa?” insiste, interrogativo. Ci metto un attimo più del necessario a rispondere, evidentemente, perché si avvicina di un altro passo, guardandomi fisso.
Mi riscuoto, espongo il mio miglior sorriso di circostanza e spiego che Fulvio è mio fratello, che volevo solo fargli un saluto, essendo di passaggio da quelle parti.
“Ah, va bene, riferirò”
“La ringrazio” rispondo, e mi avvio verso il bar.
Seduto al bancone sorseggio il mio caffè e continuo a ripensare a quel sogno assurdo, che mi suona quasi come un presagio. Non voglio suggestionarmi, e poi è quasi ora: le otto e quaranta. Finisco il caffè e mi muovo.
Faccio appena in tempo ad affacciarmi al binario che un sibilo acutissimo riempie l’aria: impossibile capire da dove arrivi, a causa della volta di lamiera ricurva, ma quando la porta del bagno salta via seguita da una fiammata e una densa colonna di fumo nero a chiunque è chiaro da che parte si debba scappare.
Sono tra i primi a raggiungere l’uscita. Lo zainetto è rimasto a terra, nel parapiglia. Poco male: soldi, chiavi e documenti li ho tutti addosso. Ritorno di corsa al furgone, mi chiudo dentro e tengo d’occhio discretamente la scena dal vano posteriore. I Vigili del Fuoco non si fanno attendere: la camionetta parcheggia esattamente accanto a me, ne escono una decina di uomini bardati con tute e respiratori. Si fanno spazio tra la folla urlante e entrano nella zona dei binari. Dopo alcuni minuti tutto sembra essersi calmato, anche il fumo nero è solo un filo esile e inoffensivo, ormai, e qualcuno inizia a riavvicinarsi alla stazione.
Improvvisamente un boato: lo spostamento d’aria fa sobbalzare il furgone come se un camion l’avesse centrato in pieno, i vetri delle auto più vicine alla stazione vanno in frantumi, decine gli allarmi che suonano contemporaneamente. Riprendo fiato, sollevo la testa e guardo la stazione: la copertura dei binari ha un grosso buco in corrispondenza dell’esplosione, anche il tetto dell’area partenze appare pericolante.
Ora è il mio momento, il momento degli anonimi numeri uno: indosso rapidamente la tenuta da Vigile del Fuoco che tengo nel retro del furgone ed esco dalla porta laterale, scivolando accanto alla camionetta ormai vuota. Arrivo alla zona dei binari e mi fermo, raggelato.
Non immaginavo minimamente un simile effetto: dal punto in cui presumibilmente ho lasciato cadere lo zainetto, sembra che una gigantesca scopa abbia spazzato tutto ciò che si è trovata davanti: persone, oggetti, valigie. Il treno più vicino al marciapiede è parzialmente sventrato e inclinato di lato; quello sul secondo binario è deragliato; dei vigili del fuoco più vicini all’esplosione non rimangono nemmeno le tute.
La ricerca chimica nel campo degli esplosivi è in continua evoluzione, ma credo che a nessuno sia venuto in mente di sperimentare come ho fatto io in questi ultimi anni e immodestamente penso che nessuno sarà mai in grado di raggiungere simili risultati.
Lungi da me l’idea di pubblicizzare le mie scoperte: mi ci farei sicuramente un sacco di soldi, ma finirei anche per dovermi assumere la paternità di tutto questo. Un suicidio.
Certo, potrei fingere di collaborare con la giustizia, studiando da esperto esterno i residui delle esplosioni per ricavarne almeno le sostanze usate. Magari potrei pure espormi un po’, fingendo di ricavare delle formule che dovrei però cedere al laboratorio, figuriamoci! Forse ne ricaverei un po’ di fama, ma i soldi se li farebbe la società, magari mettendomi pure alle calcagna qualche bravo investigatore per capire se gli attentati degli ultimi due anni fossero frutto delle mie sperimentazioni. Povero e in galera: diventerei il numero uno sì, ma dei fessi!
No, grazie. Preferisco restare nel mio grigio anonimato, consapevole che a volte essere il migliore in certi campi richieda attenzione e discrezione, soprattutto. Potrò usare in altri modi ben più redditizi le mie scoperte.
Ovviamente il giochino del bagno era una sciocchezza: un pezzetto di fosforo bianco avvolto in un gel che si è sciolto a contatto con la poca acqua nella prima bottiglia e ha innescato il contenuto della seconda. Basta calcolare bene i tempi di reazione e il gioco è fatto.
Ma l’esplosione dello zainetto è stata incredibile, per la piccola quantità di esplosivo che c’era dentro! Continuo a guardarmi intorno, beandomi del risultato finché di nuovo la testa mi si riempie di quell’assurdo: “Ehi, numero uno! Numero uno!”
Sto per sbottare, mandando al diavolo ad alta voce il mio subconscio, quando mi rendo conto che la voce che sento non è nella mia testa, ma nel casco: è la radio della tuta! Quella tuta sottratta la volta scorsa da un camion di pompieri e che sul casco riporta stampigliato un grande, giallo numero “1”.
Sollevo gli occhi e mi accorgo con terrore che la seconda squadra dei Vigili è già qui e io mi ero perso in contemplazione del mio lavoro!
Il caposquadra mi sta facendo dei cenni, forse pensa che io abbia la radio rotta per l’esplosione. Dovrei andarmene – dovevo già essermene andato, maledizione! – ma l’unica via d’uscita ormai è sbarrata dalla nuova squadra che sta entrando. Potrei lanciarmi verso i binari, ma con questa tuta addosso non arriverei molto lontano, di sicuro in giro è già pieno di polizia e carabinieri.
Il caposquadra continua a chiamarmi, con voce sempre più stridula, guardando fisso nella mia direzione mentre coordina le operazioni: ormai è chiaro che sospetti qualcosa.
Non c’è altro che io possa fare, ormai, tranne godermi in silenzio i miei ultimi secondi da numero uno: estraggo di tasca il radiocomando e faccio partire l’innesco nella valigia.
Succede tutto in pochi istanti che il mio cervello registra al rallentatore: nella luce azzurrina dell’esplosione che cresce sullo sfondo, i miei occhi si posano sul casco del caposquadra, dove un giallo e brillante “630” fa bella mostra di sé.
In un cerchio perfetto, la giornata si chiude esattamente come era iniziata. Ormai incurante che qualcuno mi possa sentire, nell’ultimo fotogramma della mia esistenza rido a voce piena: se esiste un aldilà dovrò protestare con chi di dovere perché va bene il destino, ma anche l’ironia dovrebbe avere un limite.