Fissavano l’orizzonte che si faceva sempre più scuro, in attesa, sferzati dal vento gelido che si abbatteva da nord, immobili e attenti. Non c’era rabbia né rassegnazione nei loro pensieri, solo la consapevolezza che non vi fosse un altro tempo o un altro luogo possibile, per nessuno di loro.
Erano accomunati dall’appartenenza, più che dall’età: le divise gialle e rosse spiccavano sul grigio del cielo, ma non riuscivano a trasmettere alcuna sensazione di calore. Stavano tutti in silenzio, o parlottando appena, a bassa voce, mentre il rumore della tempesta che montava pervadeva tutto.
Un guerriero più anziano stava parlando con due molto più giovani: “…molti di voi li ho visti nascere, mi spiace che alla fine siamo tutti qui, a combattere. Mi sarebbe piaciuto poter decidere che almeno voi ne restaste fuori…”
“Ma noi siamo orgogliosi e fieri di poter contribuire al destino del nostro regno! Se toccherà sacrificarci lo facciamo volentieri, perché serva a chi verrà dopo di noi”, replicò quello più spavaldo tra i due.
“Siete giovani coraggiosi” – riprese il vecchio – “Io la mia vita l’ho fatta e forse per me sarebbe stata l’ora comunque, ma vorrei che almeno voi ne usciste senza danno”.
L’altro giovane, dall’aria timida e dimessa, se ne stava in silenzio senza sapere cosa dire. Non aveva la sicumera del suo compagno, né la forza interiore del vecchio. Aveva paura, ecco tutto, come sempre prova paura chi sta per affrontare un compito gravoso, rischioso, con poche speranze di riuscita. Certo, al momento giusto non si sarebbe tirato indietro, ma non riusciva a pensare alla morte – imminente e probabile – senza provare un brivido profondo.
Era un sentimento che silenziosamente accomunava molti dei presenti, in realtà. Un non detto che aleggiava lì intorno e che nemmeno la furia del vento riusciva a portarsi via. Forse era la speranza ad ancorarlo lì: la speranza che quel vento gelido che aveva sostituito il ronzio delle api, il profumo dei fiori la dolcezza della primavera, il calore buono dell’estate, il frinire delle cicale, prima o poi cessasse e li lasciasse in pace ad aspettare di poter rivivere un’altra volta, di farsi accarezzare dalla brezza tiepida, di poter godere ancora del sole.
Speravano, pur senza dirlo esplicitamente, che quell’assurda guerra potesse risolversi senza portarsi via tutto – ché la guerra è una festa solo per chi la decide e per i vermi che alla fine banchettano sui suoi frutti – ma per tutta risposta il vento aumentò ancora di intensità, quasi a voler fugare ogni dubbio su quanto li aspettava.
Si fecero forza l’un l’altro, gli sguardi si fecero più attenti, la tensione palpabile: il nemico era vicino, anche se nessuno riusciva ancora a scorgerlo.
Poi arrivò, accompagnato da pioggia scrosciante e vento di tempesta.
La battaglia fu aspra, nessuno si risparmiò, ma ogni sforzo fu vano, di fronte alla forza indomabile del loro avversario: uno ad uno, il gelido vento della morte li soffiò via e li buttò a terra, disordinati e scomposti, come tante marionette spezzate.
Il campo di battaglia rimase silenzioso e tetro, di tutte le voci nemmeno una era rimasta a testimoniare la grandezza di quel regno che si avviava ormai alla sua fine.
Anna si guardava in giro sconsolata, fissando gli alberi completamente spogli, i rami come secche dita ossute che indicavano qualcosa di invisibile nel cielo plumbeo: “Guarda che strage!”, disse, quasi piangendo, mentre camminava sulle migliaia di foglie colorate, ormai morte.
“Non preoccuparti”, rispose Michele, “domani chiamo il giardiniere e faccio rastrellare via tutto: il prato tornerà bello e pulito entro domani sera”.
“Stai scherzando?”, replicò lei seccamente: “già sono cadute prima del tempo, si sono sacrificate per far vivere gli alberi, con questo freddo improvviso, e tu vorresti buttarle via così?”
“Non capisco, ma cosa stai dicendo?”, disse lui, “Pare tu stia parlando di… una guerra! Guarda che questo è il ciclo naturale delle cose: le foglie nascono, durano un’estate, ingialliscono, si seccano e cadono. Lo fanno ogni autunno…”
“Eh, lo vedo, che non capisci!”, insistette Anna, seria: “Quando inizia a fare freddo, l’albero deve smettere di alimentare le foglie perché altrimenti non avrebbe abbastanza energie per rimanere vivo durante l’inverno. Ma quest’anno ha fatto freddo molto prima del solito, dobbiamo lasciare a terra, queste foglie, perché proteggano le radici, concimino e diano a questi poveri alberi la forza per ricominciare, la prossima primavera…”
Michele ora era veramente perplesso: “Ma così sarà tutto un pantano… il prato… si rovinerà tutto!”
“Hai mai visto qualcuno andare a rastrellare le foglie nel bosco? Eppure, l’erba intorno agli alberi è bellissima e fresca, ad ogni primavera!”, riprese lei.
“Ma non è mica la stessa cosa! Quest’erba è seminata, se ora la faccio soffocare dalle foglie secche, l’anno prossimo non avremo più un prato! Se proprio ti preme di concimare gli alberi vado a comperarti qualcosa in agraria…”
Ma Anna non lo stava ascoltando, intenta com’era a sollevare alcune delle foglie, per notare sotto di esse la vita che già brulicava: piccoli vermi e insetti che si affrettavano a deporre uova e costruire nidi, utilizzando le foglie cadute come riserve di cibo. E tutto quel lavorio non sarebbe stato inutile, perché avrebbe prodotto il nutrimento per la rinascita, di lì a qualche mese: “Non c’è male che non sia un bene”, diceva a bassa voce mentre, china sul prato, sfiorava il tappeto di foglie rosse e gialle e cercava di non camminarci troppo sopra, per non spezzare quella vita che già cresceva, sotto tanta morte.