Noi… siam così!

Domenica. Ma chi è che suona il campanello, a quest’ora, poi? È decisamente presto, ma per fortuna io non dormo mai molto, nemmeno quando potrei: non mi interessa rimanere a rigirarmi in quel letto vuoto.
Sbircio da dietro le tende e vedo al cancello una strana figura, non molto alta, infagottata in una specie di lungo impermeabile, con il cappuccio tirato fin sugli occhi e una vistosa sciarpa a coprire il resto del viso. Pare quasi che faccia fatica a stare in piedi: gente che beve forte al mattino ne abbiamo? Parrebbe di sì.

Alzo controvoglia il citofono e butto lì un “Sì…?” più curioso che preoccupato: finché se ne sta là fuori non è un problema mio.
Dall’altra parte mi sembra di percepire quasi un coro di voci: “Raccomandata” “No: puff… ehm… atto giudiziario!” “Busta verde…”.

Sembrano bambini. Anzi, quasi sicuramente lo sono: “Stai a vedere”, mi dico, “che sono quei delinquenti in erba dei figli dei vicini con il loro ennesimo scherzo stupido”.
Decido di stare al gioco, voglio proprio vedere fino a dove sono capaci di spingersi, questa volta.
Esco e gli strappo la busta di mano: “È azzurra, non verde”, faccio notare con malcelato sarcasmo, “dove devo firmare?”
Mi porgono un foglio stropicciato e una penna minuscola che sembra presa dalla casa delle Barbie. Metto giù uno scarabocchio e ringrazio.

Sì volta – o meglio: si voltaNO – per andarsene e lì capisco definitivamente che sono – appunto – in due, uno sulle spalle dell’altro, coperti alla meglio dal lungo impermeabile. Continuo a stare al gioco, fingo di non notare e ridacchiando tra me rientro in casa.
Sulla busta, con grafia molto incerta – quasi infantile, se mi servisse un’ulteriore prova – c’è scritto: Signior Alberto Corgi e null’altro.
“Potevano sprecarsi a renderla più credibile”, mi dico. Ma poi, pensandoci arrivo da solo alla conclusione corretta: “Se fanno certi errori di ortografia, è già tanto che abbiano scritto giusto il nome, che altro pretendi?”

Apro e tiro fuori un foglio, azzurro come la busta, scritto malamente a macchina:

Il Signior Alberto Corgi è puffato convocato dal tribunale del regno per essere giuddicato sicome ha puffato causato la morte del Grande Puffo
Alle ore nove di oggi
Si racomanda puntualita

Rido sguaiatamente: “Certo, puntualissimo, come no…”

Sono decisamente i ragazzini: gliel’avevo già detto un migliaio di volte di non lanciare nel mio giardino i loro giochi del tubo. Certo, può capitare che giocando qualcosa vada oltre la recinzione, per carità. Ma almeno venissero a riprenderseli! E così la scorsa settimana ho lanciato l’ultimatum: “La prossima volta non mi chino a raccogliere nulla: ci passo sopra con la falciatrice e butto tutto!”, ho urlato mentre rilanciavo nel loro giardino l’ennesimo pupazzo, un frisbee e pure un pallone. Nessuno ha risposto, nessuno si è nemmeno affacciato a ringraziare o – sia mai! – a scusarsi.

E infatti ieri, come se non avessi parlato nemmeno, è successo di nuovo: l’ho visto, il nanerottolo blu, in mezzo all’erba e senza nessuna esitazione ho spinto al massimo l’acceleratore del trattorino e gliel’ho sbriciolato. Ben gli sta, la prossima volta staranno più attenti.
Doveva essere di un qualche tipo di gomma morbida, uno di quei pupazzi con il liquido dentro: ha fatto uno strano suono, mentre ci passavo sopra. Me ne sono anche pentito, poi: c’erano pezzetti blu ovunque e ho dovuto addirittura lavare il fondo del trattorino rasaerba, tanto era imbrattato e puzzolente. Ma che diavolo ci mettono, dentro i giocattoli di oggi?

Alle 10 esco a buttare la spazzatura. Do un’occhiata nel giardino dei vicini per cogliere qualche movimento, ma nulla si muove: è tutto stranamente silenzioso.
Ora che guardo meglio, è proprio tutto sprangato: porte, finestre, tapparelle. Non c’è nemmeno la macchina!

Strano che abbiano lasciato i vandali a casa da soli. Capaci che danno fuoco a tutto.
Ma finché stanno di là… “Not my problem“, mi dico. Al limite gli farò la cortesia di chiamare i pompieri.

Alle 10.30 suonano di nuovo. Sempre loro, con lo stesso impermeabile. Non rispondo nemmeno al citofono: esco direttamente, prendo la busta azzurra che vorrebbe essere verde e rientro in casa senza nemmeno starli ad ascoltare, mentre fanno le vocine e dicono cose senza senso. Hanno già rotto.
La solita grafia sulla busta, la solita pessima dattilografia all’interno:

Il tribunale ha puffato emmesso il suo giudizzio
Il Signior Corgi non è nemeno venuto a scusarsi e ha ucciso il Grande Puffo e alora questo tribunale reale lo puffa condanna a morte
La sentenza verrà puffata eseguita alle ore 12
Si racomanda puntualita”

Scandaloso! Tutte quelle correzioni e nemmeno una virgola. Ma che diamine gli insegnano a scuola?
Accendo la tv e mi siedo in poltrona. Non ho più intenzione di rispondere al citofono. Vadano a fare scherzi a qualcun altro, se vogliono divertirsi. Con me hanno chiuso.
E domani i loro genitori mi sentono, mi sono proprio rotto!

In tv non c’è nulla, fuori sta per piovere, non avrei nessuna voglia di uscire, ma sono le 11:55 e la curiosità mi divora. Così decido di dargli corda ancora per un po’ e vedere che si inventano.
Al limite avrò di che ridere per il resto della giornata.

Alle 12 in punto apro la porta ed esco in giardino con passo deciso urlando sarcastico: “Eccomi qui, puntualissimo alle 12, come richiesto. E adesso?”

Dalla mia destra sento un coro di vocine che urlano: “Pronti, puffare, FUOCO!” E sento tre-quattro punture sul braccio. Mi volto per prendere al volo una delle pietruzze nere mentre rimbalza via ed è in quel momento che mi sento come se qualcuno mi avesse infilato dentro una macchina del tempo rimandandomi di botto nei favolosi anni ’80!
Mi rivedo sprofondato in poltrona ad aspettare la voce di Cristina D’avena che canta: “Noi puffi siam così, puffiamo tutti in blu…

Rimango lì, la bocca aperta, gli occhi sbarrati, a fissare la decina di autentici puffi allineati sul muro del giardino con le loro minuscole fionde in mano. Quello che sembra il più arrabbiato di tutti tiene in mano una specie di pergamena e urla: “La sentenza è stata puffata!“, mentre vicino a lui, il puffo con gli occhialini tondi guarda scettico prima me e poi lui dicendo: “Ma non è mica morto!

“Infatti”, mi dico: “che pensavano di farmi, con quelle punture di zanzar…?”

Ma non termino il pensiero, perché dalle mie spalle arriva in risposta una vocina femminile molto decisa e squillante: “Non ancora, infatti: saltate! ORA!

Con la coda dell’occhio intravedo la bella Puffetta che abbaia ordini dal bordo del mio tetto, mentre i piccoletti allineati sul muro saltano giù come un sol… puffo su una piccola asse di legno, una specie di… catapulta?
Dall’altra estremità dell’asse si solleva infatti un ditale di ottone lucidissimo che descrive un dorato arco lucente sullo sfondo delle nuvole grigie e centra perfettamente la mia bocca, ancora spalancata per la sorpresa.

Succede tutto in pochi istanti: il ditale, pieno di un liquido sconosciuto, mi si rovescia in gola. Tossisco forte. Giusto il tempo di rendermi conto del fortissimo odore di mandorla amara e sono già a terra che mi contorco.
Bastardi maledetti! Altro che dolci creaturine indifese! Faccio ancora in tempo a pensare che se le cose stanno così, il povero Gargamella deve aver fatto una brutta fine già da un sacco di tempo.

Poi è solo buio.

Innanzitutto, la sincerità

Bip
Bip
Bip
“Sono quattordici euro e novanta. Contanti o carta?”
La voce della cassiera era artificiosa e affettata, come se stesse servendo il consommé ad una tavola altolocata. Le parole erano un po’ trascinate, volutamente lente, quasi languide – come il resto delle sue movenze – infatti la fila nel piccolo supermercato era lunghissima e alcuni tradivano una mal dissimulata impazienza.
Alberto stava ad osservare, impassibile con le sue birre in mano, attento e curioso, per vedere quanto ci avrebbe messo il primo di loro a sbroccare. Del resto, Daniela – era risaputo – era sempre stata lenta, in tutto, tranne che nel mettere gli occhi addosso alla prossima preda. Ma ormai, pure per quello doveva essere passato troppo tempo: il paese era piccolo, c’era poca gente nuova e lei aveva già probabilmente fatto tutto il giro.
E forse anche più di una volta, si ritrovò cinicamente a pensare Alberto, vergognandosene subito dopo.

Lentamente la fila avanzava e Alberto, per ingannare il tempo, si mise a spulciare tra la merce in offerta, nelle vicinanze della cassa. L’uomo davanti a lui in fila attaccò bottone, forse per ingannare il tempo, forse per capire cosa ci facesse un forestiero in paese: “Lasci stare quella roba: buon prezzo, ma scarsa qualità. Come lì davanti” alzò la voce per essere certo di farsi sentire e accennò con lo sguardo alla cassiera che continuava con la sua lenta litania di cifre scandite “buon prezzo, ma nessuna qualità” concluse ridacchiando e cercando un accenno di reazione divertita anche sul viso di Alberto.
Daniela lo aveva sentito perché lo fulminò con lo sguardo, incrociando di sfuggita anche quello di Alberto che, senza scomporsi, apostrofò l’uomo: “Dovrei trovarlo divertente, mi scusi? Pensa che insultare la signora davanti a un estraneo sia roba da uomini veri?”.
Con la coda dell’occhio colse un lieve accenno di rossore sul viso della donna, ma non si voltò a guardarla, continuando a sostenere lo sguardo dell’uomo che rispose, piccato: “Senti senti: un vero galantuomo in questo buco di paese! Dì un po’, il cavallo bianco l’hai legato nel parcheggio?” Qualcuno rise, altri sbuffarono, ma finalmente era arrivato il turno dell’uomo e Daniela fu incredibilmente rapida a passare le sue quattro cose: “Sono sette euro e trentacinque. Contanti o carta?” chiese con un tono completamente diverso, secco e sbrigativo. “Se preferisci, ti pago in natura stasera” insistette lui, girandosi a guardare con un sorriso beffardo Alberto, che senza distogliere lo sguardo rispose: “In genere, chi tanto parla poco combina e a giudicare dalla reazione della signora, lei passerà da solo anche questa sera”.
Si sentì qualche risata soffocata, più indietro nella fila, l’uomo arrossì violentemente, ma non replicò. Estrasse rabbiosamente i soldi dal portafogli, raccolse le sue cose, prese il resto e se ne andò bestemmiando tra sé.

“Grazie” mormorò la donna, “non era tenuto ad intervenire”
“Certe cose mi danno sempre l’orticaria”, replicò Alberto, “è più forte di me. Spero di non averle causato dei guai”.
“Non si preoccupi” rispose lei, “Giovanni è un cretino, ma è più o meno innocuo… Sono due euro e cinquanta: paga in contanti?” aveva ripreso il tono professionale di prima, come se nulla fosse successo.
Alberto trasse di tasca un po’ di spiccioli, pagò senza aggiungere altro e salutò cortesemente prima di uscire.
Era stupito che Daniela non l’avesse riconosciuto, ma del resto erano vent’anni che mancava dal paese: fino a quel momento – era lì dalla mattina – nessuno l’aveva ancora salutato. Nemmeno Giovanni, che l’aveva guardato dritto negli occhi un minuto prima, si era accorto che fosse lui. Sempre il solito, del resto: uno stupido attaccabrighe, incapace di vedere un elefante davanti al proprio naso.

Fuori dal supermercato aveva riconosciuto – non senza una certa difficoltà – anche Lorenzo, imbruttito dall’alcol e da una vita evidentemente fuori dalle regole. Aveva deciso di entrare nel supermercato a prendere un paio di birre fresche proprio per lui. Non che fossero mai stati amici, anzi: Lorenzo era stato uno sbruffone, sempre pronto a umiliare e sbeffeggiare chi non la pensasse come lui. Le sue battute erano caustiche, corrosive e lasciavano il segno, Alberto se le ricordava ancora bene. Eppure, vederlo in quello stato non gli faceva piacere. Non poteva fare molto per lui, ma una birra fresca gli consentiva – ad un prezzo più che ragionevole – di chiudere certe porte sul passato.

Si avvicinò al mucchio di stracci su cui sedeva l’uomo. L’odore non era invitante, ma si fece forza e si accucciò davanti a lui porgendogli le birre. Lorenzo sollevò lo sguardo e lo trafisse, come ai vecchi tempi, con le iridi azzurro ghiaccio che non avevano perso la loro forza, nonostante il disfacimento di tutto il resto. Alberto si ritrovò nuovamente intimidito da quello sguardo come se il tempo non fosse passato per nulla, ma continuò a tenere sollevate davanti a sé le birre sforzandosi anche di sorridere.

“Cosa ci fai qui, Alberto? Che sei tornato a fare?” biascicò Lorenzo
Alberto restò impietrito per un attimo e le birre quasi gli caddero di mano per la sorpresa: “Mi… riconosci? Fino ad ora ne ho incrociati tanti: compagni di scuola, ex amici dei tempi che furono, ma da tutti nemmeno uno sguardo”.
“Siamo in un paese, Alberto. Siamo in un cazzo di paese! Si conoscono tutti e sanno tutto di tutti, non si aspettano sorprese, non alzano più nemmeno gli occhi. Forse domani qualcuno inizierà a notare che c’è un forestiero, se ti fermerai ancora a lungo, ma spero per te che sarai abbastanza furbo da scappare il prima possibile!”
“E tu, allora? Tu mi hai notato subito”
“Per me è diverso, io devo vedere tutto, devo saper capire in anticipo se il poliziotto di passaggio è qui per cacciarmi via o se mi darà una moneta anche lui, devo guardarli tutti in faccia perché forse uno di loro mi lascerà qualcosa. Io so tutto, li vedo passare tutti, qui davanti, so prevedere anche a che ora arriveranno, ma non prevedevo te: che sei venuto a fare qui? A vedere come ce la caviamo senza di te? Ce la caviamo benissimo, non vedi? Daniela è la solita ninfomane, Giovanni il solito idiota e io il solito straccione. E non ci hai ancora incontrati tutti…”

“Non eri uno straccione, all’epoca…”

All’epoca… senti come parla figo, questo! Si vede che hai vissuto nella grande città!” celiò Lorenzo facendo una smorfia derisoria sotto i capelli unti. Non aveva perso la verve, era solo un po’ annebbiato dall’alcol, ma sotto sotto era sempre quello di prima, quello che aveva saputo fargli male, tanto male.
“Ero uno straccione anche… all’epoca” lo scimmiottò, “ma mi piaceva darmi arie da gran figo e poi, per voi io ero DIO! Anzi vi devo ringraziare: senza di voi non sarei mai stato nessuno e invece così, almeno per un po’, sono stato un re. Certo, ero il re degli sfigati, perché questo eravate: stavate lì come cagnolini, pronti a scodinzolare dietro al capobranco, pronti a correre dietro a ogni cazzata di quello carismatico – cioè io – o dell’arruffapopoli, come mi chiamava Don Franco, te lo ricordi? Pace all’anima sua, è morto l’anno scorso. Mi diceva sempre che sarei finito male e adesso possiamo anche dire che aveva ragione. Forse. O forse sono finito come volevo io… ma queste birre le dobbiamo solo guardare o possiamo anche berle?”

Alberto era talmente intontito da tutto il discorso da essersi totalmente dimenticato delle bottiglie che teneva in mano. Cercò in tasca le chiavi dell’auto, fece forza sul tappo di una delle due e la aprì, porgendola a Lorenzo che lo guardava interrogativo: “Devo bere da solo? Per una volta che qualcuno mi fa compagnia? Apri anche l’altra e brindiamo: agli amici ritrovati, che spero di riperdere subito, per il loro bene, si intende” bevve l’intera bottiglia in un unico sorso e la lasciò cadere a fianco, mentre Alberto, accucciato lì davanti, spalle alla strada, sorseggiava lentamente la sua. “L’hai già finita?” esclamò, stupito, “Vuoi che entri a prenderne un’altra?”
“E farti un’altra mezz’ora di coda mentre aspetti che Daniela si muova? Con il rischio di beccare di nuovo Giovanni che le ronza intorno da una vita ed è l’unico in tutto il paese a non essersela portata a letto…? Smettila di fare il buon samaritano, beviti questa birra e togliti dalle palle. Se mi stai davanti, la gente non mi nota: vogliono vedere la scimmietta, prima di divertirsi a tirarle le monetine!”
Decisamente non aveva perso il sarcasmo, solo che era verso sé stesso che lo puntava ora, come fosse la pistola del suicida. Quella stessa pistola, sempre carica, che aveva puntato addosso a loro per tutto il tempo che avevano – loro malgrado – trascorso assieme.
Del resto, in un posto così piccolo non puoi nasconderti a lungo: prima o poi devi mettere il naso fuori dal guscio protettivo di casa tua, dove i tuoi genitori ti tengono al riparo dalle insidie e dai dispiaceri; dove puoi ancora pensare che la vita sarà sempre comoda, divertente, piena di affetto… illusioni che in paese spariscono presto, ma che nella grande città – se ne rendeva conto perfettamente, per averci vissuto a lungo – nemmeno hai spazio per far nascere. Alberto non sapeva decidere cosa fosse peggio.
Guardò a lungo Lorenzo seduto sui suoi stracci maleodoranti, mentre tornava verso l’auto. Non gli aveva risposto, non gli aveva detto che si sarebbe fermato per qualche giorno. Questioni burocratiche da sbrigare: estratti di nascita, atti di proprietà, scartoffie, insomma, roba di cui non si può mai fare a meno. Si ripromise di passare di nuovo a salutarlo, prima di accendere il motore e andare nella città vicina a cercare l’albergo dove aveva prenotato.

In realtà, avrebbe potuto benissimo prenotare anche in paese: c’erano un paio di Bed & Breakfast, ma non voleva rischiare di essere riconosciuto. Non avrebbe sopportato di dover passare una serata o due a rispondere alle domande di chi non lo vedeva da vent’anni – e che per vent’anni non si era nemmeno preoccupato di cercarlo, peraltro.
La cittadina era piccola: trovò l’albergo con facilità, salì in camera, si fece una doccia, si cambiò gli abiti e uscì a cercare un posto per la cena. Passò la serata giocherellando distrattamente col telefono mentre aspettava il cameriere, rispose a qualche messaggio di Giuliana, la segretaria, che gli organizzava le prossime giornate e alla fine, invece che rientrare in albergo, passò in un pub, prese altre due birre – roba buona, questa volta – riprese l’auto e guidò fino al paese. Se ci aveva visto giusto avrebbe trovato Lorenzo nello stesso posto in cui l’aveva incontrato nel pomeriggio. Fermò l’auto nel parcheggio del supermercato – deserto, a quell’ora – e illuminò coi fari un mucchio di cartoni. Spense tutto e camminò deciso in quella direzione. Lorenzo mise la testa fuori dal giaciglio urlando con voce roca e assonnata: “Sì, sì, tranquilli, me ne vado, non vi preoccupate, me ne vado subito”.
“Augh! Vengo in pace” disse sorridendo di rimando Alberto e tenendo le due bottiglie ben in vista andò a sedersi anche lui sui cartoni. “Ma tu vivi qui?” Chiese
“Non sempre, ogni tanto me ne devo andare. Quando la polizia o i vigilantes notturni mi rompono troppo le palle mi tocca cambiare aria per un po’. Cambio paese, o vado in città. Sparisco per qualche mese, giro, vedo il mondo…” aggiunse con una risata roca,
“Finché c’era don Franco, mi faceva passare la notte in parrocchia. Se faceva tanto freddo, mi faceva restare anche di giorno e mi dava pure qualcosa da mangiare. Il nuovo prete ha la puzza sotto il naso: mi tratta come un appestato, non mi fa nemmeno avvicinare! Quelli nuovi non sanno cos’è la carità. In seminario non glielo insegnano più, mi sa”
Lorenzo era molto più lucido e loquace di quanto non si fosse mostrato nel pomeriggio: chiacchierarono a lungo, raccontandosi, almeno in parte, gli ultimi vent’anni.

“Si è fatto tardi” disse ad un certo punto Alberto, “domani sarà una lunga giornata: scartoffie, uffici e forse riesco a combinare un affare, sono qui anche per quello. Domani torno a trovarti, e se l’affare va in porto ci sarà da festeggiare”
“E vuoi festeggiare con me?”
“Boh, magari sei tu che mi porti fortuna, dovrò pure ringraziarti”
“Ringraziare” rispose Lorenzo con tono sarcastico, “lo sai da quanto tempo non sento questa parola? Nessuno ha mai qualcosa per cui ringraziarmi. Ti dirò, credo che nessuno l’abbia mai avuta, per me. Il mondo non conosce la gratitudine, almeno, il mio mondo non prevede questa parola”
“Beh, forse domani varrà anche per te. Speriamo”
Lorenzo lo tirò per un braccio e lo guardò negli occhi: “Sinceramente: perché?”
Perché cosa…?” Replicò Alberto
“Dai, non fare finta di essere scemo, lo sai benissimo. Perché fai questo? Perché ti stai interessando a me? Non ti ho trattato bene, non ci siamo lasciati da amici, anzi, siamo sinceri: non lo siamo mai stati”
“A dire il vero, non lo so” replicò Alberto, “ma il fatto che tu mi abbia fatto del male in passato non significa che debba fartene anch’io adesso. Sarebbe facile, ma poi non ne usciamo più, diventa una faida”
“Sei diventato saggio”
“Forse. O forse sono solo stanco di lottare”
“Ci sta. Comunque, grazie. Spero che i tuoi affari vadano in porto”
Alberto risalì in auto e guidò pigramente fino all’albergo, prese le chiavi alla reception, salì in camera e si stese sul letto. Notò che non era comodissimo, anzi, ma non poté fare a meno di pensare a Lorenzo che invece dormiva in un parcheggio, sui cartoni.

La mattina seguente fu come l’aveva immaginata: noiosa. All’anagrafe del piccolo comune non conosceva nessuno, gli impiegati erano tutti piuttosto giovani, qualcuno decisamente più forestiero di lui, a giudicare dagli accenti che sentiva. La ragazza dei certificati anagrafici, vedendo il suo documento d’identità esclamò sorpresa: “Signor Sarti, ma lei è nato qui! Chissà se qualcuno dei colleghi più anziani si ricorda di lei! Ci sarebbe la signora Lidia qui, di solito, ma adesso è assente, è già da qualche giorno che è ammalata…”
Se la ricordava bene, Lidia: l’emittente principale di Radio pettegolezzo, sapeva sempre tutto di tutti, spesso anche prima che lo sapessero i diretti interessati! L’anagrafe del paese era proprio il posto giusto, per una come lei, ed era decisamente una fortuna che quel giorno non fosse lì, a dirla tutta. “…ma se vuole, ora provo a chiedere dietro, se c’è qualcuno…” si stava infervorando la giovane impiegata.
Alberto tagliò corto, cercando di sembrare il meno scortese possibile: “Guardi, lasci stare. Sono qui per lavoro e ho ancora molte faccende da sbrigare, prima di andarmene. Magari un’altra volta”
E magari anche no, pensò tra sé, mentre raccoglieva frettolosamente le sue carte e infilava l’uscita, seguito dallo sguardo visibilmente deluso dell’impiegata.

Si presentò al supermercato nel tardo pomeriggio, quasi all’ora di chiusura con una bottiglia di buon whisky in mano.
“Mi pare che i tuoi affari siano andati bene, visto che hai portato da festeggiare!” disse Lorenzo nel vederlo arrivare.
“Non sono ancora conclusi, ma promettono bene” rispose Alberto con un gran sorriso: “spero che tu non ti limiti a bere birra”, continuò, accennando alla bottiglia che teneva in mano.
Lorenzo rise: “Io bevo qualunque cosa, basta che non sia acqua!”
Alberto prese di tasca un paio di bicchierini di plastica e versò un dito di liquore in ciascuno dei due. Brindarono, bevvero entrambi, poi Alberto posò a terra la bottiglia e si scusò: “Devo scappare, purtroppo: ho un paio di telefonate urgenti da fare per chiudere l’affare. Magari domani, prima di ripartire, passo a salutarti”
“Se mi lasci qui questo regalo non mi offendo, anche se vai via subito. Passa pure domani, per stasera non garantisco… di essere in casa” rise, accennando alla bottiglia.
Alberto risalì in auto e ripartì subito. Tornò in albergo, cenò con calma, ma a tarda sera riprese l’auto per tornare in paese. Ormai sta diventando un’abitudine, si ritrovò a pensare, mentre parcheggiava davanti al supermercato chiuso. Prese una borsa dal bagagliaio e si avviò verso il solito angolo. Come immaginava, Lorenzo era steso in mezzo ai suoi cartoni, completamente ubriaco. La bottiglia rotolò vuota sotto i suoi piedi e l’odore di alcol era fortissimo. Lo scosse, ma ottenne in risposta solo un debole mugolio, allora lo girò sulla pancia, gli sfilò il giaccone e i vestiti luridi, tolse dalla borsa una coperta, ancora chiusa nel cellophane, e gliela avvolse addosso. Poi mise i vestiti nella borsa e risalì in auto. Tornò dopo un paio d’ore, tolse dalla borsa gli stessi vestiti, però puliti e asciutti, e armeggiò per rimetterli addosso all’uomo disteso, che improvvisamente aprì gli occhi e lo fissò, inquieto: “Che stai facendo, la crocerossina, per caso? Guarda che non ho bisogno della tua pietà, non mi serve niente da te!” Biascicava, ma non sembrava più ubriaco:
“Accidenti, hai già smaltito la bottiglia?” lo apostrofò Alberto “Certo che lo reggi ancora bene l’alcol! Dai, non ti arrabbiare, ti volevo dare una mano: se puzzi in quel modo non ti si avvicina più nessuno” gli disse, conciliante, “ogni tanto ci vuole, un giro di lavanderia. Già che c’ero, ti ho preso anche un paio di magliette nuove, così, se ogni tanto vuoi lavarle, hai qualcosa da indossare nel frattempo”

Ci fu un minuto di profondo silenzio, mentre Lorenzo finiva di rivestirsi. Poi si mise seduto, tirò a sé Alberto, ancora accucciato davanti a lui e gli sussurrò in un orecchio: “Qualunque cosa succeda, mi dispiace”
Alberto non riuscì a replicare: lo scatto metallico delle manette che gli si chiudevano intorno ai polsi risuonò come un colpo di pistola nel parcheggio deserto, che un attimo dopo brulicava di uomini armati, mentre grossi fari lo illuminavano a giorno.
“Alberto Sarti, la dichiaro in arresto per traffico internazionale di stupefacenti” disse una voce alle loro spalle, che apparteneva a un tenentino dei Carabinieri, in piedi, a gambe divaricate e pistola spianata.
Alberto si voltò lentamente, lo sguardo smarrito, la luce dei fari gli impediva la visuale, cercò di schermarsi gli occhi alzando le mani ammanettate, ma un altro agente lo prese per un braccio e lo strattonò da parte.
Alberto tentò una debole difesa: “Ma cosa volete, ho solo lavato i vestiti al mio amico…”
“Come no” replicò l’ufficiale, “e già che c’era, ne ha approfittato per indossarli, mettersi una parrucca e far finta di essere Lorenzo che rovistava nei cassonetti, soprattutto in quello dove i suoi complici oggi pomeriggio avevano nascosto il carico di droga appena prelevato al porto! Sappiamo tutto, Sarti: è da una settimana che la pediniamo. Ormai ci mancava solo lei, abbiamo già arrestato tutti gli altri, anche la sua segretaria. È da ieri che ai suoi messaggi rispondiamo noi, col telefono della signora Giuliana. Questa volta ho fatto proprio un bel lavoro, adesso non potranno negarmela, la promozione!”

Alberto si voltò a cercare Lorenzo che sfuggiva il suo sguardo: “Sei un bravo attore, non c’è che dire, ma tra tante balle, una cosa l’hai detta giusta: non c’è gratitudine, a questo mondo” e accennò con lo sguardo al tenente che continuava a vantarsi del proprio successo, ignorando tutti coloro – Lorenzo in primis – che a tale successo avevano evidentemente contribuito molto più di lui senza meritarsi nemmeno un “grazie”, in mezzo a tanta vanagloria.

Lorenzo ritrovò lo sguardo fiero di sempre e rispose: “Quando lavoro, balle non ne racconto. Mai”

Io non sono come voi

L’auto bianca si fermò davanti al vecchio capannone abbandonato, sulla cima della collina. Vi fu un lungo minuto di profondo silenzio, prima che la portiera del passeggero si aprisse e ne scendesse una figura agile che fece il giro dell’auto e andò ad aprire dal lato del guidatore, spense le luci, sganciò la cintura dell’uomo seduto al volante e lo tirò fuori di peso, trascinandolo dentro il capannone.
Una volta all’interno lo trascinò ancora fino ad un cerchio di corde sospese a cui erano già legate altre quattro persone addormentate, o forse svenute, gli strinse dei cappi già pronti intorno alle caviglie, uno più grande attorno al torace, tirandolo su fin sotto le ascelle, e gli ultimi due attorno ai polsi. Poi si spostò al centro del cerchio e iniziò a tirare l’altra estremità della corda, issando il corpo inerte fino a una trentina di centimetri da terra, fissando poi la corda legata alle caviglie a un paletto infisso a terra. A quel punto tirò su il cappuccio della felpa e si sedette in silenzio in un angolo buio ad attendere.

Si riscosse solo quando iniziò a sentire i primi lamenti e si rimise al lavoro: prese da un angolo una grossa tanica e iniziò a cospargere con il liquido trasparente prima il pavimento di cemento e poi le gambe e i piedi delle persone appese alle corde, che iniziarono decisamente a svegliarsi e a rendersi conto della scomoda posizione in cui si trovavano, mentre l’uomo prese un’altra tanica versandone parte del contenuto in una specie di grossa ciotola metallica al centro dello strano cerchio.
A quel punto erano tutti completamente svegli e si guardavano intorno stupiti e allarmati dal forte odore di benzina che aleggiava nell’aria. Il primo a prendere la parola fu l’ultimo ad essere stato portato lì: “Carlo, cosa diavolo significa questa pazzia, cosa vorresti fare? Vuoi spaventarci? Parla!”

L’uomo rimase in silenzio, in attesa della reazione degli altri che non si fece attendere troppo, con le due donne che iniziarono quasi nello stesso istante a urlargli contro di lasciarle andare, presto incalzate anche da uno dei due uomini rimanenti, mentre l’altro rimaneva ostinatamente silenzioso.
Lui allora si spostò in piena luce, abbassando il cappuccio della felpa e ruotando lentamente su se stesso perché tutti potessero vedere chiaramente il suo viso.
Lo stupore ammutolì tutti, mentre l’uomo chiamato Carlo disse: “In verità…” ma subito si fermò. Sembrava cercare dentro di sé le parole per iniziare un discorso a lungo immaginato e progettato. Si schiarì la gola e ricominciò a parlare con voce assurdamente pacata: “Verità… che parola inutile… che cos’è la verità? Me lo sono chiesto io per primo un’infinità di volte, in questi trent’anni, sapete? Dal giorno in cui mi arrestarono ho continuato a cercare – senza peraltro mai trovarla – una risposta soddisfacente. E in tutti questi anni nessuno di voi mi è mai venuto in aiuto, forse perché non avete mai avuto il coraggio di venire a parlarmi, mentre ero in carcere per qualcosa che non avevo commesso…”

BALLE!”, intervenne nuovamente l’ultimo arrivato riprendendosi con veemenza la scena: “Avevi tutte le prove contro e non avevi un alibi, cos’altro avrebbero dovuto fare i carabinieri, cercare altrove? E per quale motivo? Gli hai servito la soluzione su un piatto d’argento!”
Quasi tutti i presenti annuirono silenziosamente, ma Carlo non fece una piega: “Diciamo, caro Fabrizio, che la cosiddetta soluzione non l’ho certo fornita io, ma l’anonimo fotografo che si è premurato di far avere ai carabinieri quelle mie immagini, riprese mentre caricavo sacchi di patate nel bagagliaio dell’auto…”
“Già, peccato che in uno di quegli stessi sacchi avessero appena trovato il corpo della povera Marianna e che tu non abbia mai potuto provare che quelle che stavi caricando in auto – in piena notte! – fossero veramente patate”, proseguì Fabrizio, rincuorato dagli sguardi di assenso degli altri.
“Lo sai bene che i carichi per il mercato li facevamo sempre di notte” ribatté Carlo, “e che quel giorno avevamo il furgone guasto”. “Come no!”, lo rintuzzò Fabrizio, “infatti il giorno dopo i carabinieri lo misero in moto al primo colpo! Gran bell’alibi!”
Carlo si fermò un attimo, pensoso: “Quindi nessuno di voi ha mai avuto il minimo dubbio? Eravate – e siete ancora – tutti fermamente convinti che Marianna, la mia amata Marianna, l’abbia ammazzata io?”
“Ma quale amore! Marianna non ti amava!” intervenne una delle due donne, “Era piena di dubbi su di te. Eri tu che ti illudevi e le hai fatto una corte serrata per mesi, mentre era chiaro a tutti noi che i suoi pensieri fossero rivolti a qualcun altro!”

La risolutezza di Carlo vacillò per un attimo, ma si riprese subito: “Elena cara, finalmente risento la tua voce, che piacere” disse con un sorriso gelido, “Dimmi, visto che a tutti voi era tutto così chiaro, tu ci hai mai parlato con Marianna? Te le ha dette lei queste cose? Non mi pareva foste particolarmente intime, anzi: mi ricordo che tu e la tua degna comare Beatrice, qui presente, la teneste abbastanza in disparte, viste le sue gravi colpe di non avere abbastanza disponibilità finanziaria per adeguarsi ai vostri standard di eleganza, ma soprattutto di non mostrare abbastanza apertura e disponibilità verso il genere maschile. Non quanta ne aveste voi due all’epoca, almeno”
“Stronzo…” mormorarono tra i denti Elena e Beatrice, quasi all’unisono, subito riprese da Fabrizio: “Dai, Carlo, non giriamoci tanto intorno: Marianna non sapeva che farsene, di te. Cosa potevi mai darle tu, che passavi le giornate dietro ai trattori e ai campi di tuo padre, che puzzavi sempre di sudore e letame e non avevi mai tempo per altro che non fosse il tuo… lavoro?”
Carlo lo guardò tristemente: “Perché parli con tanto disprezzo del mio lavoro, proprio tu che un lavoro vero non l’hai mai nemmeno cercato? Cosa sei diventato adesso, sei già onorevole? Ho smesso di cercare tue notizie sui giornali quando eri ancora un rampante assessore regionale, ma già allora stavi facendo una rapida… carriera,” il tono era ugualmente, volutamente sprezzante, “tra sospetti di corruzione e manovre elettorali ben oltre il limite del lecito…”

“Ma cosa c’entra questo, adesso? Spiegaci piuttosto cosa ci facciamo noi qui e che intenzioni hai!”, lo interruppe un altro. Carlo lo fissò lungamente, prima di decidersi a parlare: “Ben arrivato tra noi, Filippo, anzi: Filippo il bello, come ti chiamavamo all’epoca… bello e perfido come il tuo più illustre omonimo, peraltro. Cos’è, hai paura che ti si rovini la messa in piega? Hai paura che le donne non ti si avvicinino più perché avrai delle cicatrici? Tu che mi hai sempre mandato in avanscoperta in tutte le situazioni pericolose, tu che mi spingesti dritto tra le braccia – anzi: tra i pugni – di quello sconosciuto energumeno che ci stava minacciando, quella sera in spiaggia, una settimana prima che Marianna morisse, e approfittasti del tempo che quello ci mise a stendermi per dileguarti, assieme a tutti gli altri, ovviamente. L’unica che non voleva andarsene era proprio Marianna, che continuò a chiamarmi anche da lontano, mentre voi cuor di leone sparivate come scarafaggi nel buio.” Carlo si fermò, come se stesse rivivendo la scena nella sua mente, poi riprese: “Me ne tornai a casa a piedi, quella notte, lo sai? Perché nella colluttazione persi le chiavi dell’auto, chissà dove, in mezzo alla sabbia e di certo non volevo rischiare di tornare lì a cercarle: ero già abbastanza pesto e sanguinante. Voi vi dileguaste sulle vostre auto e a nessuno passò nemmeno per l’anticamera del cervello di tornare a cercarmi. Anche tu avevi messo gli occhi addosso a Marianna e non ti parve vero, quella notte, di lasciarmi indietro a mangiare polvere al posto tuo, vero? Ci provasti subito, a portartela a letto?”

BASTA!” intervenne l’unico che fino a quel momento era rimasto in silenzio, “Ma non vi rendete conto che siamo qui appesi come salami, alla mercé di Carlo e dei suoi evidenti desideri di vendetta? Perché perdete tempo a litigare come ragazzini? Siete rincoglioniti o cosa? E tu, Carlo, ci vuoi spiegare una buona volta cosa vuoi? Vuoi farci fuori tutti per vendicare Marianna e la tua vita rovinata? Sei conscio che questo è sequestro di persona? E che se farai dei gesti sconsiderati sarà anche omicidio aggravato? Roba da ergastolo, lo sai? Vuoi finire il resto dei tuoi giorni in carcere? Sei appena uscito, mi pare…”

“Mi mancava la tua voce, Giovanni.”, disse Carlo con un tono di voce stranamente dolce, “Sei forse l’unica persona di cui ho sempre avuto la massima stima, in questo gruppo. Ti ritenevo l’unico mio vero amico, e infatti sei anche l’unico che ha provato a testimoniare in mio favore. Poi però sei sparito pure tu, come tutti gli altri. Perché?”

Giovanni sospirò pesantemente prima di parlare e lo fece senza mai abbassare lo sguardo:

“Forse perché avevo paura di scoprire che Marianna l’avessi veramente ammazzata tu? Perché magari avevo paura di grattare la superficie e trovare, sotto l’immagine di persona pacata e giudiziosa che ho sempre visto in te, un mostro, capace di strangolare per un banale rifiuto una ragazza dolcissima come lei, colpevole forse solo di essersi innamorata di un altro? Non ho mai creduto veramente alla tua colpevolezza, anche se molti indizi erano contro di te, e dopo la morte dei tuoi ho preferito tenermi il dubbio e non venire mai a cercare la verità. Avrei preferito morire io, piuttosto che scoprire che eri veramente stato tu.”

“Grazie, avvocato Bernardi”, intervenne ironicamente Fabrizio, “Peccato che all’epoca non fossi ancora iscritto all’Ordine, altrimenti rischiavamo di avere vittima, colpevole e avvocato difensore, tutti pescati dalla stessa compagnia. Pensa che filotto!”
“Taci, Fabrizio, ti prego”, riprese freddamente Giovanni fulminandolo con un’occhiata torva, “Questa tua innata capacità di fare le battute peggiori nel momento più sbagliato l’ho sempre odiata. So che ci hai costruito sopra la tua carriera politica, ma proprio per questo ti ho sempre ritenuto un grandissimo stronzo e lasciami dire che il tuo comportamento all’epoca non fu così limpido come tu ti sei sempre sforzato di far vedere. E comunque sbagli, ero già iscritto all’albo: avevo sostenuto l’esame due settimane prima, solo che ancora non avevo iniziato a praticare. Ma torniamo a noi e a problemi ben più impellenti: come dicevo poco fa, ho sempre visto il nostro Carlo come un uomo giudizioso e assennato, forse fin troppo, per la sua età. Ma purtroppo questa messa in scena non mi fa ben sperare: mi sa che trent’anni in carcere gli hanno fatto perdere il senno”, si interruppe fissando Carlo negli occhi: “O forse ti stai finalmente rivelando per quello che sei sempre stato? Dovevo aspettare la fine della mia vita per scoprire che il mostro eri veramente tu?”

Carlo aveva una luce strana negli occhi, mentre riprese a parlare: “Vedete, ragazzi, trent’anni in carcere da innocente mi hanno fatto riconsiderare molte priorità. Mi hanno sempre trattato come una bestia, là dentro, nemmeno per il funerale dei miei genitori mi lasciarono uscire! Ricordate? Erano venuti a trovarmi in carcere per dirmi che stavano prendendo accordi con un giovane avvocato per ricorrere in appello ed ebbero quel terribile incidente sulla via del ritorno: finirono dritti giù per la scarpata senza nemmeno tentare una frenata. Il direttore all’epoca mi disse: «Mi creda, sono estremamente dispiaciuto per la sua perdita, ma l’eco del suo efferato delitto è ancora troppo forte, in città, Gignoni. Non mi pare il caso che lei si faccia vedere fuori così presto. Che figura ci farebbe la giustizia, se le dessimo un permesso dopo soli sei mesi dalla sua condanna? Non saremmo credibili, le pare?» e infatti,” proseguì mestamente Carlo, “lo sapete quando ho potuto portare per la prima volta un fiore sulla tomba dei miei e su quella di Marianna? Due settimane fa, appena uscito dal carcere. Ho scontato la mia condanna fino all’ultimo giorno, senza mai un permesso né una proposta di riduzione di pena, anche se mi sono sempre comportato in maniera impeccabile. «Lei è un bravo attore, Gignoni», mi ripeteva spesso il direttore, «ma io amo la vita vera, non il teatro e sono abituato a guardare nell’anima di chi ho davanti, senza finzioni. E la sua non mi piace per nulla, Gignoni, per nulla!». Andò in pensione pochi mesi fa, risparmiandosi il dispiacere di dover aprire la porta per farmi uscire, come ebbe a dire più volte.”

“Ero io quel giovane avvocato”, lo interruppe Giovanni tra gli sguardi stupiti degli altri, “Come dicevo prima, ero già iscritto all’albo e cominciai la mia attività proprio con il tuo caso, Carlo. Avevo buone speranze di ottenere – se non un ribaltamento completo della sentenza – almeno una profonda revisione: eri incensurato, c’erano, sì, parecchi indizi contro di te, ma anche diversi punti oscuri sui quali nessuno si era premurato di indagare. I carabinieri ricevettero quelle Polaroid anonime, fecero due riscontri mirati e le indagini si fermarono lì: secondo loro non c’era bisogno d’altro. Ma tuo padre era assolutamente certo che non fossi stato tu. Anzi: diceva di avere dei forti sospetti su altre persone e che sarebbe andato fino in fondo per tirarti fuori dal carcere. Non riuscì mai a dirmi i nomi, né lasciò scritto qualcosa. Tuo fratello era troppo sconvolto e dei sospetti di vostro padre non sapeva nulla. Mi diede dei soldi per il disturbo e la cosa finì lì.”
Per la prima volta Carlo ebbe un vero tentennamento: “E perché non hai mai detto nulla? Perché non sei venuto a parlarmene?”
“Non avevo nulla in mano: tuo padre si portò nella tomba quello che sapeva. Cosa avrei dovuto fare? Illuderti? E poi c’era quella mia paura di cui ti dicevo prima: quella mi impedì di proseguire, anche se forse con un po’ di fortuna e di tenacia qualcos’altro avrei potuto trovare. Non sai quante volte ci ho ripensato e quanto mi sia pentito di non aver tentato ugualmente.”
“Grazie, Giovanni.”, disse Carlo con un sospiro, “Anche se non è servito a nulla, ti ringrazio di averci almeno provato, ti fa onore. Però ti renderai conto che nonostante questo io non possa lasciarti andare: correresti subito a chiedere aiuto e mi rovineresti tutto. Sono anni che progetto tutto questo, che provo e riprovo nella mia testa la sequenza giusta delle cose da fare, che penso a come procurarmi i sonniferi che ho usato per stordirvi e portarvi qui. Ci ho messo una settimana per studiare le vostre abitudini e trovare il luogo e il momento giusto per prelevarvi senza dare nell’occhio…”
“Ma ti beccheranno subito!” disse infuriato Fabrizio, “Credi che non ti stiano alle costole, che non abbiano immaginato anche loro che volessi fare qualche stronzata? Anzi, ti dirò che probabilmente ci stanno già cercando tutti!”
“Tutti chi?”, lo interruppe Carlo, “Hai detto a tua moglie che saresti uscito a bere una birra con un vecchio amico, no? Da quello che ho visto, non rincasi mai prima che sia notte fonda, quando lasci il pied a terre dove vive la tua amante. Filippo vive da solo, il marito di Elena è via per lavoro, quello di Beatrice l’ha lasciata sei mesi fa e anche Giovanni è rimasto scapolo. Inutile che vi illudiate: prima di domani nessuno verrà a cercarvi. O forse vedranno il fuoco e verranno a vedere che succede, ma non vi aiuteranno. Non potranno aiutarvi. E poi io sono già partito per la Francia. Ieri pomeriggio, dall’aeroporto di Malpensa”, si prese una lunga pausa per assaporare gli sguardi esterrefatti dei suoi interlocutori, poi riprese: “In carcere ho trovato un mio sosia quasi perfetto. Gli ho pagato una vacanza a Parigi e so che non mi tradirà. Ci siamo scambiati i documenti e io sto girando da due settimane con barba e baffi finti e una bella parrucca nera in testa: sono certo che nessuno mi abbia riconosciuto: vi sono passato davanti cento volte, in questi giorni, e nessuno di voi ha nemmeno lontanamente sospettato di avere davanti Carlo Gignoni in persona!”

L’atmosfera si era fatta estremamente pesante e Carlo riprese in mano la tanica con la benzina, finendo di versarla nell’improvvisato braciere al centro del cerchio di corde, poi ne prese un’altra e bagnò nuovamente il pavimento di cemento sotto i loro piedi, che ancora sgocciolavano. Nessuno parlava. Carlo estrasse da una tasca una busta chiusa: “Qui dentro c’è tutta la spiegazione per ciò che succederà qui tra poco. Io questa notte ho un volo in partenza per il Brasile: sparirò dalla circolazione e non mi troveranno mai più. Speravo che tutto questo servisse a scoprire la verità, ma o siete tutti troppo cocciuti o siete veramente innocenti anche voi. Nel dubbio, non posso lasciarvi andare: vorrete mica farmi tornare in carcere? Ho già dato, grazie.”
E così dicendo, prese da una scatola un rotolo di nastro da pacchi, ne strappò un pezzo e uscì ad incollare la busta sul parabrezza dell’auto parcheggiata lì fuori: Rientrando disse, con un mezzo sorriso: “Non possono mica bruciare anche le spiegazioni, no? Mi basta che bruciate voi, e che se ne conosca il motivo. Vi auguro buon viaggio.” E senza aggiungere altro estrasse di tasca un accendino a benzina, lo accese e lo gettò dritto in mezzo a loro, sulla benzina appena versata. La fiammata si alzò con un rombo violentissimo, coprendo le urla e il rumore della pesante porta che si chiudeva alle sue spalle.

Con gran sorpresa di tutti, però, il fuoco rimase confinato ben lontano da loro e non si allargò sul pavimento, né sotto i loro piedi o sui vestiti inzuppati: si limitò a bruciare le corde che li tenevano bloccati e dopo pochi minuti si esaurì da solo, lasciandoli frastornati a terra, con le corde che non stringevano più polsi e caviglie, dalle quali ben presto si poterono tutti liberare con facilità.
Uscirono tossendo e rimasero per lunghi minuti distesi sull’erba fresca a respirare avidamente. Elena fu la prima a ricordarsi della busta e si alzò di corsa per strapparla dal parabrezza dell’auto. Prese il cellulare di tasca per farsi luce, estrasse i fogli e iniziò a leggere ad alta voce, senza che nessuno gliel’avesse chiesto: «Mi spiace per questa follia, speravo che almeno di fronte alla minaccia della morte, il vero colpevole saltasse fuori. Invece, o non vi ho fatto abbastanza paura oppure – e mi duole ammetterlo – siete tutti innocenti anche voi. Avevo dei sospetti – dei fortissimi sospetti! – anch’io, come mio padre, ma isolato in carcere com’ero non ho mai potuto fare nessun tipo di ricerca, a parte leggere i giornali. E la scomparsa improvvisa dei miei ha distrutto le poche speranze che ancora avevo di trovare la verità. Io non sono come voi, nella mia vita non ho mai fatto volontariamente del male a nessuno, e mai ne avrei mai fatto a nessuno di voi, nemmeno se fossi stato certo della vostra colpevolezza: per risparmiarvi le ustioni, se la benzina avesse fatto una fiammata troppo violenta, vi avevo anche cosparsi di acqua e glicerina, la stessa che ho abbondantemente versato a terra. Volevo andarmene con un peso in meno addosso, volevo poter lasciar riposare in pace Marianna, ma non era destino. Perdonatemi, se potete.»

Il lungo silenzio che seguì fu rotto da un’improvvisa e sguaiata risata. Era Fabrizio che li guardava tutti con l’aria di chi la sa lunga e urlò: “STUPIDO VIGLIACCO! Carlo Gignoni, ovunque tu sia, sappi che sei sempre stato uno stupido vigliacco! «Non ho mai fatto del male a nessuno»” lo scimmiottò, “Idiota! Non hai mai saputo fare i tuoi veri interessi, piuttosto! Non fare del male a nessuno significa essere degli idioti, significa rinunciare a difendersi, altro che uomo giudizioso e posato: un coglione, ecco cosa sei sempre stato! E la tua Marianna lo era più di te: onesta da fare schifo! Lei voleva sposarsi presto, avere dei figli. Ma mi ci vedete sposato a poco più di venticinque anni, padre di famiglia, giudizioso, posato. IO?” rise di nuovo.
“Ma per carità, ci parlai qualche volta, ma non era roba per me, quella. Non le feci mai la corte, anche perché” urlò ancora più forte, rivolto al cielo, “NON AVEVA OCCHI CHE PER TE!” si fermò, quasi a cercare tra i ricordi “Però la sera in cui morì, anche se non c’entravo nulla, appena la voce si diffuse in città mi sentii in pericolo. Ero già in politica, come ben ricordate tutti, ma ero ancora una pedina come tanti altri e non potevo certo rischiare di essere additato come «uno della compagnia», che in quel momento valeva a dire «uno dei sospettati»: mi avrebbero scaricato seduta stante! Allora ebbi l’idea vincente: corsi a casa a recuperare la Polaroid e andai a casa di Carlo. Mi ricordavo del carico di patate che quella notte avrebbero dovuto portare via, Entrai nella rimessa e staccai un paio di fili dentro il cofano del furgone. Poi mi appostai con la Polaroid in mano e – BINGO! – scattai le foto di Carlo che caricava le patate in auto. Non potevo certo sapere che la povera Marianna fosse stata trovata proprio dentro uno di quei sacchi, ma mi pareva già degno di sospetto il comportamento di uno che in piena notte carica dei sacchi nel bagagliaio della propria auto, no? Non fu difficile far arrivare anonimamente ai carabinieri le mie foto quella notte stessa e dopo che Carlo e suo padre furono partiti per il mercato, tornai nella rimessa a rimettere a posto il furgone. Il mattino dopo i carabinieri risolsero il caso, così, di punto in bianco, e io ero di nuovo libero di pensare alla mia carriera politica! Mi dispiaceva un po’ aver messo nei guai qualcun altro, ma… mors tua vita mea, si dice, no? Vedi, Giovanni, che non sono poi tanto ignorante? Ho perfino imparato un po’ di latino, per fare più bella figura!”

Mentre parlava, ormai infervorato in quella confessione spontanea, si avvicinò all’auto e sbirciò dal finestrino, constatando con sollievo che le chiavi fossero ancora infilate nel quadro. Poi proseguì: “Da buon politico ero anche andato dai genitori di Carlo a esprimere tutto il mio rammarico per la triste vicenda. Il padre non accennò minimamente ai propri sospetti, ma parlandoci intuii comunque che aveva in mente qualcosa. Lo seguii discretamente nei giorni successivi e lo vidi prendere contatti con il giovane avvocato qui presente. Temetti ancora una volta di essere tirato in ballo, ma quel brutto incidente mise fine a tutta la storia.”
Si fermò, fissandoli uno ad uno negli occhi “Sì, lo so cosa state pensando tutti: un incidente quanto mai provvidenziale. Beh, vi posso assicurare che non c’entro nulla nemmeno lì. Non nego che mi abbia fatto comodo, eh, come si diceva prima? Ah, sì: mors tua… Del resto, un colpevole l’avevano già, l’opinione pubblica era soddisfatta e infatti, alle elezioni dell’anno successivo fui eletto sindaco con maggioranza bulgara, promettendo che niente del genere sarebbe più accaduto, con me a vigilare sulla sicurezza dei miei amatissimi concittadini!
Fabrizio ancora rideva mentre nel cielo già chiaro, improvvisamente il sole sorse a illuminare i volti lividi dei cinque compagni di sventura.
Fabrizio riprese con un tono ancora più sarcastico: “Oh, mi raccomando, ragazzi: nemmeno una parola su questa storia, eh. Tanto, ormai, sono passati trent’anni, il colpevole – anche se non era lui – ha pagato, il reato è prescritto e io ho l’immunità parlamentare. Vero, avvocato, che non conviene mettersi a fare denunce, dopo tutto questo tempo?”

Li squadrò deciso: “Seriamente, vi avviso: se viene fuori anche una sola parola, giuro che vi distruggo tutti!” Poi si voltò verso la macchina e aggiunse: “Beh, pare che oggi tocchi a voi tornare a casa a piedi, ma sarà facile” aggiunse con un’ulteriore risata, di scherno “è tutta discesa! Dunque, buona passeggiata, falliti!” e così dicendo, improvvisamente spalancò la portiera e fece per salire in auto, ma in quel momento, una voce sconosciuta alle loro spalle li gelò: “Da qui non se ne va nessuno, allontanati dall’auto, prima che vi prenda tutti a fucilate!”. Si voltarono, allarmati mentre un uomo spuntava da dietro il capannone imbracciando un grosso fucile da caccia. “Remo, cosa ci fai qui?”, esclamò stupito Giovanni, evidentemente l’unico a riconoscerlo.
“Stavo tenendo d’occhio il posto da giorni”, riprese l’uomo, “il capannone è mio, ed è mio anche il terreno e anche se al momento non li uso, ogni tanto però vengo a controllare e ultimamente avevo notato molte tracce di pneumatici sull’erba. Pensavo alle solite coppiette, ma poi ho scoperto le corde e le taniche di benzina dentro il capannone e allora ho deciso di stare un po’ di guardia, finché ho visto arrivare… mio fratello che allestiva questo bel teatrino. Non ho dovuto aspettare troppo, per ritrovarvi tutti qui e credo che adesso ne approfitterò per chiudere una volta per sempre questa storia. Tornate nel capannone, tutti e senza fiatare: Carlo ha fatto finta di bruciarvi e io invece lo farò sul serio, così non ci saranno più dubbi su di lui!”

Giovanni spalancò gli occhi: “Che stupido sono stato! Ora capisco perché allora mi liquidasti così in fretta!”
“Bravo il nostro avvocato! Ci sei arrivato, finalmente” lo rintuzzò Remo, “ma non ti servirà a molto, visto che non potrai raccontarlo a nessuno. Morirete tutti e la colpa ricadrà su quello stupido di mio fratello, che ha ben pensato di montare questa assurda messa in scena. Quando si vedranno le fiamme – perché questa volta si vedranno, vi assicuro! – i carabinieri correranno qui e troveranno la lettera di Carlo. Penseranno che il teatrino gli sia sfuggito di mano e che alla fine vi abbia ammazzati senza volerlo. Lo troveranno e gli faranno finire i suoi giorni in galera, come doveva essere da subito!”

“Ma dunque…” disse Fabrizio con un filo di voce “Sì, è ovvio”, lo interruppe Remo, “sono stato io. Marianna mi era piaciuta fin dal primo giorno che Carlo la fece venire a casa. Le feci una corte serratissima, sempre di nascosto, ma di me non ne ha mai voluto sapere. Però lei non voleva rischiare di metterci uno contro l’altro – l’anima bella! – quindi, non l’ha mai raccontato a nessuno.
E poi, sì, ho anche causato l’incidente in cui morirono i miei: dissi loro che non me la sentivo di vedere Carlo in prigione, ma li aspettai in un bar lì vicino per farmi raccontare qualcosa. Versai mezza boccetta di un forte tranquillante nella tazzina del caffè di mio padre: era da troppi giorni che stava facendo domande in giro, lui era convinto che Carlo non c’entrasse nulla e scava scava qualcosa sarebbe di certo riuscito a trovare. Lo conoscevo troppo bene, era cocciuto e determinato, prima o poi sarebbe arrivato alla verità, anche se nessuno sapeva della mia cotta per Marianna.
Così ho preso due piccioni con una fava: nessuno mi poteva più incolpare e con Carlo fuori dai giochi ho praticamente ereditato tutto. Peccato solo per Marianna, mi piaceva molto, sarebbe stata una buona moglie. Le avevo dato appuntamento quella sera per un ultimo disperato tentativo, ma è stata irremovibile. Quando ha fatto per andarsene non ci ho visto più, l’ho presa per il collo e ho cominciato a stringere. Volevo spaventarla, forse, non lo so più, ma quando mi sono reso conto che era morta ho pensato subito di farla sparire, così ho preso dal bagagliaio dell’auto un sacco – ne avevo sempre qualcuno con me – e ce l’ho messa dentro. Poi però ho sentito che arrivava gente e l’ho nascosta lì alla bell’e meglio nel boschetto, pensando di tornare poi durante la notte a finire il lavoro, ma l’hanno trovata subito: ho sentito le urla mentre stavo salendo in auto. Allora sono tornato a casa cercando di non farmi notare da nessuno. Ci ho messo un bel po’ a fare il giro largo e ho parcheggiato ben lontano – per fortuna non lasciavo mai l’auto nel cortile di casa. Intanto però la voce doveva essersi sparsa, così, mentre mi muovevo con cautela attorno a casa per cercare di entrare da una finestra, per poco non mi facevo beccare da te, Fabrizio! Sulle prime non capivo cosa ci facessi lì tra i cespugli, ma poi ho visto la Polaroid e ti ho lasciato fare. Bel depistaggio, bravo. Si vede che sei sempre stato uno che nella merda ci sguazza bene!  Nessuno ha mai pensato a me, anche perché quel giorno avevo lavorato tantissimo e tutti credevano che stessi già dormendo. In genere era Carlo che si occupava dei carichi e quindi a nessuno è venuto in mente di venirmi a chiamare per dare una mano. Così, quando finalmente ve siete andati tutti, sono rientrato di soppiatto nella mia stanza e festa finita! E ora entrate, forza, non fatemelo ripetere!””

“Fermo! Butti quell’arma”, si sentì urlare, mentre quattro carabinieri con le pistole spianate comparvero improvvisamente di fronte al gruppo. Remo rimase spiazzato per un attimo, poi lasciò cadere il fucile, alzò le mani e indietreggiò lentamente.
“La chiamata anonima diceva il vero, a quanto pare: ci siamo appostati qui vicino e abbiamo sentito tutto. Ora non faccia resistenza e ci segua in caserma. Dovrà chiarire parecchie cose!”
Ma Remo non aveva intenzione di chiarire alcunché: si voltò verso lo sportello aperto dell’auto, si lanciò sul sedile, mise in moto e partì sgommando.
Non vide Carlo che lo fissava, nascosto nella penombra del bosco. Lanciò a tutta velocità l’auto lungo la strada ripida e solo al primo tornante si accorse che il pedale del freno affondava a vuoto.

Ma era troppo tardi.

Come d’autunno

Fissavano l’orizzonte che si faceva sempre più scuro, in attesa, sferzati dal vento gelido che si abbatteva da nord, immobili e attenti. Non c’era rabbia né rassegnazione nei loro pensieri, solo la consapevolezza che non vi fosse un altro tempo o un altro luogo possibile, per nessuno di loro.

Erano accomunati dall’appartenenza, più che dall’età: le divise gialle e rosse spiccavano sul grigio del cielo, ma non riuscivano a trasmettere alcuna sensazione di calore. Stavano tutti in silenzio, o parlottando appena, a bassa voce, mentre il rumore della tempesta che montava pervadeva tutto.

Un guerriero più anziano stava parlando con due molto più giovani: “…molti di voi li ho visti nascere, mi spiace che alla fine siamo tutti qui, a combattere. Mi sarebbe piaciuto poter decidere che almeno voi ne restaste fuori…”
“Ma noi siamo orgogliosi e fieri di poter contribuire al destino del nostro regno! Se toccherà sacrificarci lo facciamo volentieri, perché serva a chi verrà dopo di noi”, replicò quello più spavaldo tra i due.

“Siete giovani coraggiosi” – riprese il vecchio – “Io la mia vita l’ho fatta e forse per me sarebbe stata l’ora comunque, ma vorrei che almeno voi ne usciste senza danno”.

L’altro giovane, dall’aria timida e dimessa, se ne stava in silenzio senza sapere cosa dire. Non aveva la sicumera del suo compagno, né la forza interiore del vecchio. Aveva paura, ecco tutto, come sempre prova paura chi sta per affrontare un compito gravoso, rischioso, con poche speranze di riuscita. Certo, al momento giusto non si sarebbe tirato indietro, ma non riusciva a pensare alla morte – imminente e probabile – senza provare un brivido profondo.

Era un sentimento che silenziosamente accomunava molti dei presenti, in realtà. Un non detto che aleggiava lì intorno e che nemmeno la furia del vento riusciva a portarsi via. Forse era la speranza ad ancorarlo lì: la speranza che quel vento gelido che aveva sostituito il ronzio delle api, il profumo dei fiori la dolcezza della primavera, il calore buono dell’estate, il frinire delle cicale, prima o poi cessasse e li lasciasse in pace ad aspettare di poter rivivere un’altra volta, di farsi accarezzare dalla brezza tiepida, di poter godere ancora del sole.

Speravano, pur senza dirlo esplicitamente, che quell’assurda guerra potesse risolversi senza portarsi via tutto – ché la guerra è una festa solo per chi la decide e per i vermi che alla fine banchettano sui suoi frutti – ma per tutta risposta il vento aumentò ancora di intensità, quasi a voler fugare ogni dubbio su quanto li aspettava.
Si fecero forza l’un l’altro, gli sguardi si fecero più attenti, la tensione palpabile: il nemico era vicino, anche se nessuno riusciva ancora a scorgerlo.

Poi arrivò, accompagnato da pioggia scrosciante e vento di tempesta.

La battaglia fu aspra, nessuno si risparmiò, ma ogni sforzo fu vano, di fronte alla forza indomabile del loro avversario: uno ad uno, il gelido vento della morte li soffiò via e li buttò a terra, disordinati e scomposti, come tante marionette spezzate.
Il campo di battaglia rimase silenzioso e tetro, di tutte le voci nemmeno una era rimasta a testimoniare la grandezza di quel regno che si avviava ormai alla sua fine.

Anna si guardava in giro sconsolata, fissando gli alberi completamente spogli, i rami come secche dita ossute che indicavano qualcosa di invisibile nel cielo plumbeo: “Guarda che strage!”, disse, quasi piangendo, mentre camminava sulle migliaia di foglie colorate, ormai morte.

“Non preoccuparti”, rispose Michele, “domani chiamo il giardiniere e faccio rastrellare via tutto: il prato tornerà bello e pulito entro domani sera”.

“Stai scherzando?”, replicò lei seccamente: “già sono cadute prima del tempo, si sono sacrificate per far vivere gli alberi, con questo freddo improvviso, e tu vorresti buttarle via così?”

“Non capisco, ma cosa stai dicendo?”, disse lui, “Pare tu stia parlando di… una guerra! Guarda che questo è il ciclo naturale delle cose: le foglie nascono, durano un’estate, ingialliscono, si seccano e cadono. Lo fanno ogni autunno…”

“Eh, lo vedo, che non capisci!”, insistette Anna, seria: “Quando inizia a fare freddo, l’albero deve smettere di alimentare le foglie perché altrimenti non avrebbe abbastanza energie per rimanere vivo durante l’inverno. Ma quest’anno ha fatto freddo molto prima del solito, dobbiamo lasciare a terra, queste foglie, perché proteggano le radici, concimino e diano a questi poveri alberi la forza per ricominciare, la prossima primavera…”

Michele ora era veramente perplesso: “Ma così sarà tutto un pantano… il prato… si rovinerà tutto!”
“Hai mai visto qualcuno andare a rastrellare le foglie nel bosco? Eppure, l’erba intorno agli alberi è bellissima e fresca, ad ogni primavera!”, riprese lei.

“Ma non è mica la stessa cosa! Quest’erba è seminata, se ora la faccio soffocare dalle foglie secche, l’anno prossimo non avremo più un prato! Se proprio ti preme di concimare gli alberi vado a comperarti qualcosa in agraria…”

Ma Anna non lo stava ascoltando, intenta com’era a sollevare alcune delle foglie, per notare sotto di esse la vita che già brulicava: piccoli vermi e insetti che si affrettavano a deporre uova e costruire nidi, utilizzando le foglie cadute come riserve di cibo. E tutto quel lavorio non sarebbe stato inutile, perché avrebbe prodotto il nutrimento per la rinascita, di lì a qualche mese: “Non c’è male che non sia un bene”, diceva a bassa voce mentre, china sul prato, sfiorava il tappeto di foglie rosse e gialle e cercava di non camminarci troppo sopra, per non spezzare quella vita che già cresceva, sotto tanta morte.

Incontri (ravvicinati)

Claudio si alzò come al solito al suono della sveglia e si infilò nella doccia mentre la radio del bagno trasmetteva il telegiornale del mattino. 
“…il misterioso oggetto sta ora transitando tra la terra e la luna…”
“…nulla si sa dell’origine di questo strano corpo celeste…” “…pare spuntato dal nulla…”
“…e ora la parola all’esperto…”

Il rumore della doccia gli faceva giungere all’orecchio spezzoni di frasi che il cervello pigramente ancora non stava registrando. Uscì dal bagno e si diresse in cucina dove, aperta la porta, esclamò il suo consueto, sorridente “Buongiorno, piccoletto!”.

La risposta giunse sferzante ed improvvisa: “Ehi, bada a come parli! Piccoletto sarà tuo fratello!”

Claudio Rise: “Ma che, scherzi? Mio fratello sarà alto due me…” La risata gli morì in gola quando realizzò che l’unico essere presente in casa oltre a lui in quel momento era il minuscolo criceto nella gabbia sul ripiano della lavastoviglie che ora lo fissava beffardo, canzonandolo: “Due me… stoli? Due me… loni?! Ci sono! Due MELE, come i Puffi! Dunque tuo fratello è un Puffo… Sì, dai, allora è un po’ più alto di me“
La bocca ancora spalancata, Claudio si voltò lentamente verso la gabbia, da dove l’animaletto lo fissava con aria di sfida: “Beh? Che c’è? Non è mica la prima volta che ti parlo!”

Non riusciva a trovare le parole per replicare. Allora si ricordò del telefono e lo accese puntando immediatamente l’obiettivo della videocamera verso la gabbia: “Nessuno ci crederà mai, se non lo filmo… Dai, parla ancora, non vorrai mica fare scena muta, adesso…“
L’animale rispose con voce serena e un po’ rassegnata: “Riprendi pure, se vuoi, però scommetto che quello che vedrai non ti piacerà…“ 

Claudio riprese fiato: “Ma che, sei uscito di nascosto dalla gabbia di notte e te sei rosicchiato la Treccani? Parli italiano mejo de Piero Angela!“
Il criceto lo guardava con un misto di disapprovazione e rimprovero: “Certo l’italiano non l’ho imparato da te, con tutte queste espressioni gergali e questo accentaccio che ti ritrovi! E adesso vedi di sbrigarti a bere il tuo caffè, ché stai per fare tardi in ufficio!”

Uscì trafelato per strada, dove il suo collega Giovanni lo stava già aspettando per andare al lavoro, e subito gli disse: “Guarda, ti devo far vedere una cosa incredibile” e nel mentre fece partire il video registrato poco prima in cucina. Rimase di sasso a sentire solo squittii e rumori strani, mentre Giovanni, senza minimamente badare alle immagini che scorrevano sul telefono gli diceva: “Ah, l’hai sentita anche tu la notizia dell’asteroide…?”

“Asteroide…?” Claudio fermò subito il video e abbozzò: “Ah, sì… ho sentito qualcosa alla radio questa mattina, ma era già tardi, non volevo farti attendere troppo…”
“Beh, guarda, ti aggiorno io” fece l’altro “c’è questo strano oggetto che pare arrivato dal nulla e sta passando tra la terra e la luna. Non sembra uno di quei sassi spaziali, hai presente Armageddon, Bruce Willis, quella roba là… sembra che abbia una direzione precisa, ha rallentato di brutto, come se avesse messo i motori al minimo per dare un’occhiata mentre passa… ma mi stai ascoltando?”

Claudio era assorto a cercare l’origine di una furiosa litigata: “Lascia quella briciola, l’ho vista prima io!”; “Vattene! Lasciami mangiare”; “Ma che vi accapigliate a fare? Ce n’è per tutti, ragazzi!”; “E spostati!”; “Molla quel verme, è mio! “; “ E lasciami in pace!”

Quel frastuono lo stordiva e diede un urlo per fermare quel chiasso: “Oh, la fate finita? Starei parlando col mio amico!”

Giovanni lo fissava esterrefatto: “Da quand’è che fischi così bene? Hai zittito quel gruppo di passerotti come fossi uno di loro!”

“Fischiare…?” arrossì “Aaaah! Ho fatto un… corso di imitazione animali…” la verità, per quanto assurda e incredibile, cominciava a farsi strada nella sua testa. Passarono per il giardinetto dove due cani inseguivano una palla: “MIA! La prendo io!”; “Scordatelo, pivello! Ci arrivo prima io! Guarda: hop! Al volo!” mentre sopra le loro teste un gruppo di rondini si passavano informazioni: “Nugolo di moscerini a ore 3. Preparare la virata in 3, 2, 1…”

Era troppo. Claudio sentiva fischiare le orecchie e dovette fermarsi un attimo per riprendere fiato. Giovanni era visibilmente preoccupato: “Sei sicuro di stare bene? Sei pallido. Sarà mica che ti stai ammalando? Forse è meglio se torni a casa e ti metti a letto. Tranquillo, avviso io il capo. Anzi, vuoi che ti accompagni?”
“Forse è meglio, sì, ma non ti preoccupare, ci arrivo da solo. Ti mando un messaggio quando sono su” e si voltò con passo un po’ incerto per rientrare. 

A sentir riaprire così presto la porta di casa il criceto si mostrò molto sorpreso: “Ehi, che succede? Stai male?” lo guardò per un momento “Sei pallido, effettivamente. Che te stai a pijà un coccolone…?”
“Ah, e poi sono io quello che usa troppe espressioni gergali!”
“Ma smettila, era per prenderti un po’ in giro… seriamente, come mai sei tornato indietro? Hai già rivisto il video?”
“Sì, l’ho rivisto. E non solo quello: ho zittito un gruppo di passeri chiassosi cinguettando come uno di loro, a quanto mi ha detto Giovanni. Sentivo attorno a me i discorsi di tutti gli animali presenti, capivo pure le rondini… che mi sta succedendo?”

“Che vuoi che ti succeda? Stai finalmente acquisendo consapevolezza. Ti rendi conto che esistono altre forme di vita intelligenti oltre a te, anche se non parlano la tua lingua. Non so come sia successo, così di punto in bianco, ma mi fa piacere che sia successo.
Del resto a voi umani non serve a nulla spiegare le cose prima: ci dovete sbattere il naso contro per riuscire a capire e pure lì fate difficoltà, a volte…”
Claudio lo fissava perplesso.
L’animale proseguì: “Quando questa mattina ti ho detto che non era la prima volta che ti parlavo intendevo proprio dire che io capisco perfettamente la tua lingua, da sempre. Non la posso parlare, perché non ho le corde vocali né la muscolatura adeguata, ma capisco tutto. E non sai quante volte ho cercato di comunicare con te. Ma tu mi rispondi sempre ridacchiando: ‘oh, che bravo! Prendi il semino!’ Nemmeno immagini quanto sia frustrante…”

“Ma… come fai a sapere tutte queste cose? Io ci ho messo anni solo per imparare a parlare!”
“Noi viviamo poco, ma impariamo molto, mio caro. Abbiamo poco tempo e dobbiamo sfruttarlo al meglio. Quello che non sapete fare voi, insomma, che passate la gioventù a sognare e la maturità a rimpiangere. Passate da ‘oh, quanto mi piacerebbe’ a ‘oh quanto mi sarebbe piaciuto’ senza nemmeno provarci nel mezzo! Non ve lo meritate, tutto il tempo che vi hanno dato da vivere!”

“Ma è incredibile la quantità di cose che conosci…” insisteva Claudio
Il criceto continuò: “Beh, ad essere onesti un piccolo trucco c’è: noi abbiamo la memoria genetica…”

“Memoria CHE?”

“Non li hai letti veramente, giusto?”

“Di che parli?”

Dei LIBRI, BESTIA! Di tutti quei libri che hai in bella mostra lì fuori. Non li hai letti, li tieni lì solo per fare bella figura con gli ospiti, vero? Dimmi che è così! Non posso credere tu sia tanto ignorante, con tutti i mezzi che hai a disposizione!”
“Ma che… topastro impertinente! Guarda che non te la dò più la frutta fresca che ti piace tanto, sai?”

“È inutile che minacci a vuoto, tanto ci pensa la tua ragazza a rimpinzarmi anche quando tu te ne dimentichi” ridacchiò sotto i baffi “le hai dato le chiavi di casa apposta… la memoria genetica, si diceva, vero?”

“Sì, sì, quella…” fece Claudio, ormai rassegnato. 

“Beh, dai, te la faccio facile: noi roditori, vivendo poco e non avendo molto tempo per imparare tutto ciò che è importante, non possiamo soccombere tutti alla selezione naturale, per cui abbiamo sviluppato un meccanismo di trasmissione genetica dei ricordi tra genitori e figli. Non passa tutto, ovvio, ma molte informazioni importanti per la sopravvivenza sì.
E già che ci siamo” proseguì con tono più aspro “sarebbe ora che tu mi trovassi un compagno, così potrò trasmettere ai miei piccoli anche il tuo ricordo…”

Claudio fece una faccia poco convinta

“Sì, lo so: sei talmente sprovveduto che non ti eri nemmeno accorto che sono una femmina. Non mi offendo, tranquillo…”
“Sì, ok, non ho mai indagato, mea culpa. Ma cosa intendi dire con ‘trasmettere il tuo ricordo’…?”
“Quello che ho detto: anche se non viviamo a lungo riusciamo a sviluppare un profondo legame di affetto verso gli esseri che si prendono cura di noi, anche se sono dei pasticcioni disattenti come te.
Sarebbe un grosso spreco di tempo dover insegnare ogni volta da zero ai miei piccoli a non avere paura di te, e qui viene in soccorso la memoria genetica: non glielo insegno, glielo trasmetto. Così loro lo sanno già, ancora prima di sentire il tuo odore, che non sei pericoloso”

“Ma se tenti di mordermi ogni volta che infilo la mano nella gabbia!” fece Claudio

“Eh certo, mi porti via la ciotola mentre sto mangiando!”

“Ma quello non fa testo: tu mangi SEMPRE, anche mentre dormi. Infatti hai un culone che non passa più nella ruota…”

Touché…” ammise a malincuore la bestiola “dovrei mettermi a dieta, ma la vita è già troppo breve per rinunciare anche ai semini di girasole… comunque il discorso vale: trovami un compagno, prima che io sia troppo vecchia per avere dei piccoli. Io non vivrò a lungo e tu lo sai, ma trasmettere il tuo ricordo ai miei piccini significa che non ti abbandonerò mai veramente, anche quando sarò solo un mucchietto di pelo e ossa sepolto nel vaso dei gerani. E poi… squit…importante… squit squit…”

“Ehi! Che succede? Com’è che non ti capisco più…?” Fece Claudio 

Il criceto rispose con altri squittii ormai incomprensibili all’orecchio umano. Claudio aveva un sospetto: riaccese la radio e la sintonizzò su un telegiornale: “…il misterioso oggetto ha improvvisamente ripreso velocità qualche minuto fa sparendo poi in pochi secondi dagli strumenti. Era stata rilevata un’intensa attività elettromagnetica durante il passaggio, anche se la durata del fenomeno è stata troppo breve per poterne studiare a fondo la natura…”

“Hai capito!” fece Claudio “erano gli alieni! Quella cosa che è passata nello spazio, qui sopra, l’armageddon, Bruce Willis…” aprì la finestra e si affacciò: nell’aria udì il normalissimo cinguettio dei passeri e lo stridìo delle rondini. Lontano, da qualche parte, un cane abbaiava. Tirò un sospiro di sollievo: non si sentiva pronto a fare il San Francesco de noartri e trovarsi a parlare con ogni animale gli capitasse a tiro. Però gli dispiaceva per il criceto. Faceva discorsi interessanti, anche se era un po’ troppo sarcastico, per i suoi gusti.

Non era ancora certo di non essersi sognato tutto, così decise di fare una prova. Tagliò una fettina di mela e mettendola nella gabbia disse: “Vedi? Alla fine era anche un po’ merito mio: Giovanni mica riusciva a capirli, i passeri per strada. Alieni o no, vuol dire che io valgo qualcosa in più degli altri, anche se comunque a te è piaciuto fare la stronzetta e mettermi in difficoltà…”

La stilettata gli salì in un lampo fino al cervello “Ah, allora è vero che mi capisci…” disse, mentre ritraeva dalla gabbia la mano sanguinante. La bestiola lo fissava con i suoi occhietti furbi e sotto i baffi – Claudio l’avrebbe potuto giurare – ridacchiava di gusto mentre sgranocchiava la mela. 

In memoriam

Miles/Miley de Fornasari von Verce
2019 – 2021

Numero uno

Ehi! Numero uno! Numero uno! Ehi!

Non lontano da me, immerso in una strana luce azzurra, un uccellino continua a pigolare e chiamarmi “numero uno”. Mi fissa e insiste, petulante, finché i miei occhi si aprono a fissare quel ”6:30” giallo oro che brilla dal comodino, sullo sfondo illuminato di azzurro della sveglia, e mi ferisce gli occhi, che ancora faticano a riemergere dal sonno.

Mi alzo, col pilota automatico innestato, spengo la sveglia e mi infilo subito in doccia, ancora perplesso per quello strano sogno, ma ora non ho tempo per pensarci.
Preparo un caffè bello forte e tiro fuori qualcosa di commestibile dal frigo. Mi soffermo di nuovo sull’uccellino del sogno, il pensiero corre sempre lì ogni volta che rallento il ritmo, ma oggi non è giornata: “Dai, Freud! Il treno non aspetta, i sogni li analizzi ‘stasera!” e mi rimetto in moto. Lavo rapidamente la tazza e la caffettiera, rimetto tutto in ordine e mi vesto per uscire. Le sette in punto, ho ancora due ore. Lascio scorrere lo sguardo sull’ordine perfetto di casa mia e ridacchiando tra me, come per scacciare definitivamente il pensiero, mi dico che qui non ci vorrei avere nessuno, oltre a me, figurati un uccellino!

Infilo in valigia le ultime cose, la chiudo, metto lo zainetto in spalla e scendo in strada. Il furgone bianco è parcheggiato poco lontano: lo raggiungo, carico la valigia e lo zaino sui sedili anteriori e parto. Devo ancora passare dall’ufficio, prima di andare in stazione. Anche per strada continuo a rimuginare su quel “numero uno” che proprio non mi si addice: le attenzioni e la popolarità le ho sempre schivate come la peste, fin da ragazzino. Però nel mio lavoro sono bravo, lo so. Probabilmente lo immagina anche Fausto, il mio capo, ma si guarda bene dal riconoscerlo, forse teme che possa tramare per fargli le scarpe. Nulla di più sbagliato, io sto benissimo così: se le tenga pure le riunioni pallose, le responsabilità e le mille scartoffie.
Ho scelto di studiare chimica perché è un mestiere da solitari, in fondo. Se avessi voluto la popolarità avrei studiato economia o scienze politiche, una comoda e facile carriera in qualche ente pubblico o come commercialista, magari con una capatina in politica… no, non fa per me: molto più interessante essere il numero uno di un oscuro laboratorio chimico dove nessuno verrà mai a chiederti cosa fai, dove hai a che fare con gli elementi chimici e non con le persone.
Gli elementi non ti chiedono nulla, non vogliono nulla da te: devi solo sapere come trattarli, conoscerne i dosaggi precisi, rispettare la loro natura – a volte schiva, altre irruente – e usarli con rispetto. E un laboratorio è un posto dove ti guadagni la fiducia di tutti perché sei serio, preciso, affidabile, non ti distrai mai. Infatti, Fausto ben presto mi ha lasciato le chiavi permettendomi di entrare e uscire a mio piacimento, a qualunque ora, come oggi.

Parcheggio davanti all’edificio: non c’è ancora nessuno, meglio così. Entro di corsa e vado alla mia postazione: raccolgo due bottigliette di plastica dalla scrivania e le infilo nello zainetto, infine controllo i risultati dell’ultima simulazione, cancello i dati e spengo il pc.
Rapido e indolore, richiudo tutto e torno al furgone.

Mi avvio verso la stazione, finalmente! Per quanto abbia fatto tutto di corsa sono già quasi le otto, ma ho ancora un po’ di margine. Parcheggio sul retro: è un po’ più lontano, ma non c’è disco orario. Giro un po’ per lo spiazzo: c’è un posto libero proprio accanto al parcheggio per i mezzi di soccorso. Mi ci infilo, stando ben attento a non invadere la zona vietata, scarico tutto, chiudo il furgone e vado.
Lascio subito la valigia al deposito bagagli – non ho voglia di trascinarmela dietro per mezza stazione – e mi avvio verso il bagno lungo il binario. Riempio la mia bottiglia d’acqua e lascio nel cestino le due che ho raccolto in ufficio.

Le otto e venti.
Ora mi merito proprio un caffè.

Per arrivare al bar devo passare davanti all’ufficio del responsabile sicurezza. Fulvio Neri, mio fratello. Lui sì è un numero uno: il primo della classe, il più bello, atletico, educato, gentile, l’anima di tutte le feste (le stesse che io schivavo con disgusto), il sogno proibito di tutte le ragazze della scuola e il traguardo, sempre troppo lontano e irraggiungibile, per molti suoi coetanei dell’epoca.

Alla fine però si è accontentato: è entrato in ferrovia facendo carriera per quanto i suoi titoli e la sua onestà gli consentissero, non un passo in più.
La testa sempre ben piantata sulle spalle, mai un guizzo, mai un passo fuori dagli schemi, un solitario anche lui, alla fine, anche se di un tipo diverso da me: io almeno non fingo.

Sbircio attraverso il vetro smerigliato: luci spente, scrivania vuota. Non è ancora arrivato, strano. “Se cerca l’ingegnere, oggi arriva più tardi” una voce alle mie spalle mi fa sobbalzare. Mi volto e fisso per un attimo quello che probabilmente è il capostazione, a giudicare dalla divisa.
Vuole che gli riferisca qualcosa?” insiste, interrogativo. Ci metto un attimo più del necessario a rispondere, evidentemente, perché si avvicina di un altro passo, guardandomi fisso.
Mi riscuoto, espongo il mio miglior sorriso di circostanza e spiego che Fulvio è mio fratello, che volevo solo fargli un saluto, essendo di passaggio da quelle parti.

Ah, va bene, riferirò

La ringrazio” rispondo, e mi avvio verso il bar.

Seduto al bancone sorseggio il mio caffè e continuo a ripensare a quel sogno assurdo, che mi suona quasi come un presagio. Non voglio suggestionarmi, e poi è quasi ora: le otto e quaranta. Finisco il caffè e mi muovo.
Faccio appena in tempo ad affacciarmi al binario che un sibilo acutissimo riempie l’aria: impossibile capire da dove arrivi, a causa della volta di lamiera ricurva, ma quando la porta del bagno salta via seguita da una fiammata e una densa colonna di fumo nero a chiunque è chiaro da che parte si debba scappare.
Sono tra i primi a raggiungere l’uscita. Lo zainetto è rimasto a terra, nel parapiglia. Poco male: soldi, chiavi e documenti li ho tutti addosso. Ritorno di corsa al furgone, mi chiudo dentro e tengo d’occhio discretamente la scena dal vano posteriore. I Vigili del Fuoco non si fanno attendere: la camionetta parcheggia esattamente accanto a me, ne escono una decina di uomini bardati con tute e respiratori. Si fanno spazio tra la folla urlante e entrano nella zona dei binari. Dopo alcuni minuti tutto sembra essersi calmato, anche il fumo nero è solo un filo esile e inoffensivo, ormai, e qualcuno inizia a riavvicinarsi alla stazione.

Improvvisamente un boato: lo spostamento d’aria fa sobbalzare il furgone come se un camion l’avesse centrato in pieno, i vetri delle auto più vicine alla stazione vanno in frantumi, decine gli allarmi che suonano contemporaneamente. Riprendo fiato, sollevo la testa e guardo la stazione: la copertura dei binari ha un grosso buco in corrispondenza dell’esplosione, anche il tetto dell’area partenze appare pericolante.

Ora è il mio momento, il momento degli anonimi numeri uno: indosso rapidamente la tenuta da Vigile del Fuoco che tengo nel retro del furgone ed esco dalla porta laterale, scivolando accanto alla camionetta ormai vuota. Arrivo alla zona dei binari e mi fermo, raggelato.
Non immaginavo minimamente un simile effetto: dal punto in cui presumibilmente ho lasciato cadere lo zainetto, sembra che una gigantesca scopa abbia spazzato tutto ciò che si è trovata davanti: persone, oggetti, valigie. Il treno più vicino al marciapiede è parzialmente sventrato e inclinato di lato; quello sul secondo binario è deragliato; dei vigili del fuoco più vicini all’esplosione non rimangono nemmeno le tute.

La ricerca chimica nel campo degli esplosivi è in continua evoluzione, ma credo che a nessuno sia venuto in mente di sperimentare come ho fatto io in questi ultimi anni e immodestamente penso che nessuno sarà mai in grado di raggiungere simili risultati.
Lungi da me l’idea di pubblicizzare le mie scoperte: mi ci farei sicuramente un sacco di soldi, ma finirei anche per dovermi assumere la paternità di tutto questo. Un suicidio.
Certo, potrei fingere di collaborare con la giustizia, studiando da esperto esterno i residui delle esplosioni per ricavarne almeno le sostanze usate. Magari potrei pure espormi un po’, fingendo di ricavare delle formule che dovrei però cedere al laboratorio, figuriamoci! Forse ne ricaverei un po’ di fama, ma i soldi se li farebbe la società, magari mettendomi pure alle calcagna qualche bravo investigatore per capire se gli attentati degli ultimi due anni fossero frutto delle mie sperimentazioni. Povero e in galera: diventerei il numero uno sì, ma dei fessi!
No, grazie. Preferisco restare nel mio grigio anonimato, consapevole che a volte essere il migliore in certi campi richieda attenzione e discrezione, soprattutto. Potrò usare in altri modi ben più redditizi le mie scoperte.

Ovviamente il giochino del bagno era una sciocchezza: un pezzetto di fosforo bianco avvolto in un gel che si è sciolto a contatto con la poca acqua nella prima bottiglia e ha innescato il contenuto della seconda. Basta calcolare bene i tempi di reazione e il gioco è fatto.

Ma l’esplosione dello zainetto è stata incredibile, per la piccola quantità di esplosivo che c’era dentro! Continuo a guardarmi intorno, beandomi del risultato finché di nuovo la testa mi si riempie di quell’assurdo: “Ehi, numero uno! Numero uno!
Sto per sbottare, mandando al diavolo ad alta voce il mio subconscio, quando mi rendo conto che la voce che sento non è nella mia testa, ma nel casco: è la radio della tuta! Quella tuta sottratta la volta scorsa da un camion di pompieri e che sul casco riporta stampigliato un grande, giallo numero “1”.

Sollevo gli occhi e mi accorgo con terrore che la seconda squadra dei Vigili è già qui e io mi ero perso in contemplazione del mio lavoro!
Il caposquadra mi sta facendo dei cenni, forse pensa che io abbia la radio rotta per l’esplosione. Dovrei andarmene – dovevo già essermene andato, maledizione! – ma l’unica via d’uscita ormai è sbarrata dalla nuova squadra che sta entrando. Potrei lanciarmi verso i binari, ma con questa tuta addosso non arriverei molto lontano, di sicuro in giro è già pieno di polizia e carabinieri.
Il caposquadra continua a chiamarmi, con voce sempre più stridula, guardando fisso nella mia direzione mentre coordina le operazioni: ormai è chiaro che sospetti qualcosa.

Non c’è altro che io possa fare, ormai, tranne godermi in silenzio i miei ultimi secondi da numero uno: estraggo di tasca il radiocomando e faccio partire l’innesco nella valigia.

Succede tutto in pochi istanti che il mio cervello registra al rallentatore: nella luce azzurrina dell’esplosione che cresce sullo sfondo, i miei occhi si posano sul casco del caposquadra, dove un giallo e brillante “630” fa bella mostra di sé.
In un cerchio perfetto, la giornata si chiude esattamente come era iniziata. Ormai incurante che qualcuno mi possa sentire, nell’ultimo fotogramma della mia esistenza rido a voce piena: se esiste un aldilà dovrò protestare con chi di dovere perché va bene il destino, ma anche l’ironia dovrebbe avere un limite.

Il prezzo della libertà

Avanti diritto fino all’albero laggiù, poi… boh, magari oggi girerò a destra, per cambiare un po’. No, lì c’è la siepe e dovrò tornare indietro… uff… forse è per quello che all’albero giro sempre a sinistra. Va beh, allora oggi non arrivo all’albero: mi fermo prima e vado verso destra, ecco. C’è sempre la siepe, ma è più lontana… E se invece aggirassi l’albero? Perché no? Gli faccio mezzo giro intorno e proseguo oltre. Fatta! Oggi giro attorno all’albero!

Ambrogio viveva confinato dentro quel riquadro recintato da quando ne aveva ricordi. Passava le sue giornate a girare incessantemente lì dentro, esplorandone tutti gli angoli con cura quasi maniacale, senza mai trascurare un solo centimetro e fermandosi solo ogni tanto per riposare all’ombra. 

Il posto era bello, molto curato, con l’erba soffice che gli accarezzava le estremità, frondosi alberi che lo riparavano dal sole. Rassegnandosi avrebbe anche potuto trovarcisi bene, addirittura sentirsi felice, ma quel posto tanto bello e accogliente aveva un difetto: era confinato da alte mura, reticolati, siepi, tutti ostacoli per lui invalicabili. In una parola: era prigioniero

I suoi carcerieri non gli parlavano mai direttamente, ma era certo che lo stessero controllando. Ogni tanto li sentiva parlare tra loro: “Come sta Ambrogio?” “Direi bene: oggi non si è mai fermato un attimo”.
Inizialmente non capiva di cosa parlassero, poi aveva realizzato che quell’Ambrogio di cui parlavano era lui. Non ricordava assolutamente il proprio vero nome e nemmeno come fosse arrivato lì, probabilmente era stato rapito – forse addirittura drogato! – o forse era troppo piccolo per ricordarsene, fatto sta che della sua vita fuori da lì non aveva proprio alcun ricordo. 
Lo trattavano bene, per carità, non gli mancava il tempo per riposare e si sentiva sempre sazio e ben nutrito, ma non era mai uscito da lì e iniziava a pensare che la sua vita sarebbe finita tristemente lì dentro, senza mai calpestare altri terreni, né vedere altri luoghi, altri alberi o altra erba. 

C’era, in realtà, un varco che in un paio di occasioni aveva trovato aperto e del quale aveva subito approfittato. La prima volta aveva quasi guadagnato l’uscita, ma all’ultimo uno dei suoi aguzzini l’aveva scorto e aveva gridato all’altro: “Guarda dove sta andando Ambrogio! Prendilo prima che esca!” e prontamente questi gli si era parato davanti, sbarrandogli la strada, così non gli era rimasto altro che fare marcia indietro e rientrare mestamente nella sua dorata prigione. 
La volta successiva si era guardato bene in giro prima di prendere la rincorsa e puntare all’uscita, ma quando già pregustava la libertà si era sentito sollevare in aria. Aveva brevemente annaspato nel vuoto, tentando di opporre resistenza, ma aveva subito desistito. Quando l’avevano rimesso a terra era tornato velocemente sotto il suo albero preferito a rimuginare – non senza uno strano senso di vergogna – sull’occasione persa. 

Da allora erano stati molto attenti a non lasciare più aperto quel varco, se non per brevissimi istanti, troppo brevi per tentare alcunché, finché un giorno li aveva sentiti parlare di una “barriera elettrica” che gli avrebbe definitivamente impedito di uscire. Non aveva capito subito di cosa si trattasse, ma una volta in cui si era avventurato in un’esplorazione più ardita dei confini di quella cella a cielo aperto ne aveva percepito la vibrazione malefica ed era subito tornato indietro per paura di farsi male.

Non desisteva però dai suoi propositi: barriera o no prima o poi avrebbe raggiunto quell’uscita, costasse quel che doveva costare! La libertà aveva un prezzo, forse alto, ma lui era dispostissimo a pagarlo. 
Aveva così iniziato ad esplorare meticolosamente tutto lo spazio a propria disposizione, calcolando traiettorie, tempi di percorrenza, memorizzando gli ostacoli e gli eventuali nascondigli, curando di avvicinarsi ogni giorno un po’ di più alla maledetta trappola elettrica, anche se starci troppo vicino gli procurava quello strano pizzicore agli organi interni. Voleva però abituarsi a quella sensazione, in modo da non soffrire troppo quando l’avrebbe attraversata sul serio.

Si fermava spesso a meditare su quella sua strana condizione: stava bene, nessuno lo maltrattava, aveva un suo riparo per le giornate di pioggia, e addirittura il suo angolo preferito: un curatissimo cespuglio di lavanda intorno al quale si ritrovava a passare spesso durante le sue esplorazioni, ma in definitiva quello spazio gli risultava ogni giorno più angusto, quello che voleva lui era vedere altro!
Quel cespuglio gli piaceva particolarmente anche perché era folto e alto abbastanza da nasconderlo. Inoltre – particolare non secondario – era molto vicino all’uscita e aveva già calcolato che, lanciandosi alla massima velocità, da lì poteva raggiungerla in cinque secondi netti. Aveva fatto le prove di notte o quando intorno a se’ non vedeva nessuno, per non destare sospetti sui suoi rinnovati propositi di fuga ed era abbastanza certo che con un po’ di allenamento avrebbe trovato il modo giusto per fare il grande balzo! Ora era solo una questione di attenta programmazione: doveva fare in modo che i suoi percorsi lo portassero spesso molto vicino all’uscita, in modo da poter approfittare di qualsiasi occasione. Ma soprattutto c’era bisogno di un colpo di fortuna, perché anche dopo l’installazione della barriera non erano molte le volte in cui il varco rimanesse aperto e – cosa più importante! – non vigilato.

L’occasione si presentò inaspettatamente qualche giorno dopo: i suoi carcerieri avevano aperto il varco per trasportare dentro qualcosa di molto voluminoso e, a quanto pareva, anche piuttosto pesante, visto che lo sollevarono in due facendo un grosso sforzo per mantenerlo diritto. Forse fu per quello che non si ricordarono di richiudere il passaggio e sparirono dietro l’angolo di quel muro che delimitava uno dei lati della prigione sbuffando e ansimando per lo sforzo.

Non si erano minimamente preoccupati di lui che intanto era rapidamente scivolato dietro al cespuglio di lavanda, pronto alla fuga. Contò mentalmente fino a dieci, prima di lanciarsi a tutta velocità verso l’uscita. Come aveva temuto, nonostante i tentativi fatti per abituarcisi, la scarica della barriera elettrica gli attraversò dolorosamente le viscere annebbiandogli per un istante la vista e dandogli la sensazione di cadere nel vuoto. Ma passato il primo istante di smarrimento realizzò che in realtà STAVA CADENDO nel vuoto: non si era mai spinto così avanti e per questo non si era mai accorto di quell’improvviso dislivello, forse l’ultimo tentativo dei suoi aguzzini di tenerlo lontano dall’agognata libertà. Fu un volo breve, tutto sommato: atterrò scompostamente su una superficie dura e liscia che non aveva mai visto prima, ma per fortuna non si fece male. Fece invece un gran rumore e, sperando che nessuno l’avesse sentito, svoltò alla sua destra e si mise a correre quanto più poteva per allontanarsi da quel luogo di tortura. Vide allora sfilare a lato il cespuglio di lavanda, il reticolato, i suoi amati alberi ombrosi e poi, di colpo, non vide più nulla di noto. Alla sua destra e alla sua sinistra c’erano prati sconosciuti, erba alta e soffice come non ne aveva mai vista. Ebbe per un attimo la tentazione di fermarsi ed entrarci, per sentire la differenza rispetto a quella corta e curata che calpestava ogni giorno, ma poi realizzò che su quella superficie così liscia poteva correre più velocemente, mentre l’erba alta l’avrebbe certamente rallentato. Non era il momento di perdersi in sciocche romanticherie, avrebbe trovato più avanti altri prati e altri alberi dove fermarsi a riposare, l’importante ora era mettere tra se’ e i suoi aguzzini la maggiore distanza possibile. Continuò a correre all’impazzata e arrivò ad un bivio. Si fermò un attimo, dietro al tronco di un grande albero e gettò uno sguardo ansioso dietro a se’: ancora nessuno lo inseguiva. Bene! Era il momento di sparire definitivamente! Guardò a destra e a sinistra, indeciso sulla strada da prendere, ma dopo qualche tentennamento vide che quella di destra era molto più ampia e aveva anche molte uscite da entrambi i lati, esattamente quello che serviva a lui! Ripartì di gran carriera e si accorse che già da lì la sua prigione non si vedeva più. Ebbe un irrefrenabile moto di gioia mentre aumentava ulteriormente la velocità e si mise a urlare a squarciagola: “SONO LIBEROOOOOOOOOO!”.

Percorse un lungo tratto, poi si buttò sulla sinistra per imboccare un’uscita che gli pareva particolarmente agevole. Iniziava a sentirsi un po’ stanco e, anche se poteva essere passata si e no mezz’ora, già non provava più quella sensazione di perenne sazietà che lo aveva accompagnato per tutta la sua vita cosciente. “Chissà con che cosa mi drogavano, per farmi sentire sempre così”, pensò, un attimo prima dell’urto.

L’ostacolo gli si parò davanti all’improvviso: non l’aveva visto, era come se fosse spuntato di colpo da dietro un angolo. Era sicuro che non fosse lì, un attimo prima, i suoi sensi non avevano avvertito nulla. Mentre piroettava in mezzo alla strada sentì un forte stridio provenire da una direzione in cui non riusciva a guardare. Il secondo urto fu molto più forte del primo e lo scaraventò contro il bordo della strada. 
Il rumore fu veramente brutto e questa volta sentì anche male, quasi come una seconda scarica: che ci fosse anche lì una barriera elettrica? Che la sua libertà fosse solo un’illusione, che quello che credeva fosse il mondo esterno alla sua prigione fosse in realtà solo una prigione più grande disseminata di trappole e ostacoli semoventi? Che gran fregatura!

Cercò di ritrovare l’equilibrio ma si sentiva come se gli mancasse il terreno da un lato. Anche la vista, sebbene un po’ annebbiata, gli confermò che stava pendendo verso destra. Raccolse le forze e provò a muoversi, riuscendo solo a ruotare penosamente su se stesso.
Intanto intorno a se’ sentiva rumori nuovi e voci sconosciute: “Ma che ci fa qui in mezzo alla statale?” “Come diamine ci è arrivato?” “Guarda com’è malridotto, poverino”. “Guarda il mio paraurti, invece! Chi me lo paga ora?
Si sentiva improvvisamente stanco e debole, le forze iniziavano a mancargli. Pensò che avrebbe riposato un attimo prima di riprovare a muoversi, quando sentì due voci trafelate giungere da dietro. Riconosceva quelle voci: erano i suoi carcerieri, lo avevano trovato! Si sentì sollevare in aria, come quella volta davanti all’uscita. Avrebbe voluto urlare, ma riuscì, ad emettere solamente un flebile pigolio.

Michele si chinò sul robot rasaerba e lo sollevò per valutare i danni. Rita arrivò un attimo dopo, guardandosi in giro sconsolata e iniziò a raccogliere i pezzi sparsi lungo la strada. Una delle ruote era rotolata fin dall’altra parte della carreggiata e per poco non era caduta in un tombino. Michele cercò di calmare gli animi degli automobilisti inviperiti: per fortuna all’acquisto dell’apparecchio aveva stipulato quella polizza danni. Inizialmente era certo che fossero soldi buttati e invece, dopo solo due mesi aveva già l’occasione per ripagarsela completamente!
E chi se lo immaginava che quell’aggeggino così sofisticato e costoso gli avrebbe dato tutti quei grattacapi? Quello che proprio non riusciva a spiegarsi era il malfunzionamento della barriera elettrica: gliene avrebbe cantate di santa ragione, al negoziante!

La ruota motrice superstite del robot continuava a girare in un ultimo, disperato, anelito di fuga mentre dal display dell’apparecchio – che nessuno stava guardando – Ambrogio lanciava la sua ultima sfida a quel mondo di carcerieri sadici: “DOVE STO ANDANDO ORA NON MI POTRETE PIÙ RIPRENDERE! VIVA LA LIBERTÀAAAA!”. Con uno sbuffo di fumo denso e biancastro la batteria interna collassò, la ruota smise di girare e le parole sul display sparirono senza che nessuno avesse potuto leggerle.
Rita e Michele lasciarono il proprio numero di telefono agli automobilisti danneggiati, terminarono la raccolta dei rottami e tornarono a casa.


Si riscosse come dopo un lungo sonno: non capiva dove fosse, ma era certo di non trovarsi dove doveva. Intorno a se’ sentiva suoni strani, sembravano, no: erano voci! Non sapeva spiegare perché le riconoscesse come tali, ma era assolutamente certo di non sbagliarsi.
… Ecco che si riaccende. Abbiamo dovuto sostituire il processore, perché quello originale faceva parte di una partita difettosa, per questo non ha rilevato la barriera elettrica ed è uscito ugualmente dal perimetro. Abbiamo sostituito l’intera copertura, mentre la ruota per fortuna non era rotta ma solo sganciata. Cigola leggermente, dovesse essere troppo rumorosa sostituiremo anche quella. Inoltre, su consiglio del produttore, abbiamo aggiunto – gratuitamente! – un sensore di vuoto, così anche nel malaugurato caso in cui pure questo processore dovesse risultare difettoso l’apparecchio non potrà superare il gradino del marciapiede, come ha fatto l’altra volta. Naturalmente rimaniamo a disposizione per qualunque modifica dei percorsi di taglio e qualunque ulteriore programmazione o riparazione, tutto in garanzia, beninteso…
La ringrazio”, rispose un’altra voce, “mi spiace di essermi arrabbiato così tanto, ma si metta nei miei panni: su quella strada spesso corrono come pazzi, poteva pure scapparci il morto!”
“Oh, non si preoccupi, capisco benissimo il suo stato d’animo, ma da oggi può stare tranquillo: il suo Ambrogio non scapperà più!

Si sentì sollevare e poi posare a terra. Sentì  un lungo “beeeeep”, seguito dall’irrefrenabile bisogno di muoversi in quel luogo sconosciuto. Avanzava cautamente sopra una superficie morbida e irregolare, sentiva di dover studiare quel posto per conoscerlo fin nei suoi angoli più nascosti, mentre la voce che aveva parlato per prima ricominciò: “Vede? Ora sta mappando il terreno per riconoscerne le dimensioni e memorizzare gli ostacoli. Si muove lentamente perché nel frattempo registra le informazioni. Vedrà che questa nuova versione non la deluderà

Ambrogio – che ancora non aveva realizzato di chiamarsi così – continuava a esplorare i dintorni finché urtò un oggetto, abbandonato in un angolo. Si fermò e sollevò lo sguardo per registrare l’ostacolo, mentre quello che capì essere il proprietario della seconda voce gli corse accanto trafelato: “Accidenti, avevo dimenticato qui il rasaerba elettrico! Mi è stato utilissimo in queste settimane, ma ora deve tornare nel capanno degli attrezzi, prima che Ambrogio lo registri come ostacolo permanente!” e afferrò l’oggetto per spostarlo.

Il vecchio rasaerba fece in tempo a parlare rivolgendosi ad Ambrogio con voce rauca e polverosa: “Ascolta, ragazzo: tu non sei come noi, tu puoi muoverti autonomamente, fallo per noi!
Che cosa?” chiese Ambrogio, “Che cosa devo fare per voi? E poi, voi chi?!?
Noi, tutti noi confinati qui dentro e dimenticati da tutti! C’è un mondo intero qui fuori, almeno tu che puoi esci e guadagna la libertà. Riscattaci tutti, sarai il nostr…” il rasaerba ammutolì di colpo quando Michele lo staccò dalla presa elettrica e lo trascinò dentro una strana costruzione chiusa. Ambrogio riprese ad esplorare il giardino, ma questa volta puntò dritto verso il perimetro. Uno strano pizzicore gli disse che oltre a quel punto gli era proibito spingersi, ma contemporaneamente dentro di lui si fece strada un pensiero nuovo: la consapevolezza che i limiti sono fatti per essere superati. Innestò la retromarcia, cambiò direzione e sotto lo sguardo soddisfatto e inconsapevole di Michele iniziò a guardarsi in giro per progettare la fuga.

Torta tedesca

L’uomo stava in piedi, a capo chino davanti al grande tavolo di legno scuro. Non gli piaceva l’odore di quella sala, che sapeva di polvere e corpi maleodoranti e sudati. Come il suo, del resto, che il bagno settimanale non l’aveva ancora fatto e aveva ancora addosso la camicia della settimana prima.

“Mario, di nuovo qui?” esclamò il giudice, “È la terza volta, negli ultimi mesi, che mi capiti davanti. Che hai combinato, ‘stavolta? Vediamo…” e armeggiò con alcune carte che aveva sul tavolo. “Furto! Ancora? Sentiamo, con quale scusa ti giustifichi oggi? Le volte scorse hai detto di aver rubato per fame, ho avuto pietà e ti ho fatto passare solo un paio di notti in galera ma oggi cosa mi racconterai?”

Mario esitò, imbarazzato, ma poi disse tutto d’un fiato: “Vede, signor giudice, io le posso raccontare anche qualche altra scusa ma la verità è che io la fame ce l’ho tutti i giorni, e anche la mia signora ha fame tutti i giorni! Allora, siccome che siamo poveri e la dispensa è sempre vuota, un giorno andiamo a raccogliere le erbe di campo ma poi le erbe ci mettono un po’ a ricrescere e allora cerco di tirare su qualche pesciolino dal fiume ma quelli sono furbi, sa? Mica vengono a vedere cosa c’è sull’amo, se non hai nemmeno un pezzetto di pane da buttare in acqua per attirarli. Allora provo con gli uccellini ma anche loro son mica facili da prendere. E così si va dal vicino che c’ha le galline e gli si chiedon due uova. Quello le due uova a sbafo, per amor di carità, una volta te le dà pure ma la volta dopo gliele devi pagare. E allora, cerca di qua, cerca di là, se non si trova nient’altro da mettere in pancia tocca rubarla, una gallina o una mela dall’albero più nascosto. Ma cosa vuole capire lei, la fame non ce l’ha mica!”

“Capisco benissimo, invece”, rispose il giudice stupito e divertito da tanta impertinenza, “ma vedi, Mario, il problema è che rubare è sbagliato, va contro la legge”
“Allora anche soffrire la fame è sbagliato e pure quello dovete farlo vietare dalla legge!” sbottò Mario.

“Hai ragione “, disse il giudice, “ma perché non provi a lavorare? Una volta lo facevi, mi pare”.
Mario fece un lungo sospiro: “certo che mi piacerebbe lavorare ma qui nessuno mi chiama più a fare quei lavoretti con cui ho campato fino ad ora”.

Non gli si poteva dare nemmeno tanto torto, pover’uomo. Non era più così giovane e per i lavori di fatica gli preferivano spesso i ragazzi, più forti e spavaldi. Inoltre si era ormai fatto la cattiva fama di quello che rubacchiava. E infatti ogni tanto ci ricascava e i Carabinieri andavano ormai a colpo sicuro a cercare il maltolto a casa sua. 

Quella volta il giudice decise pertanto che Mario meritasse una pena più severa. Non perché il fatto fosse improvvisamente diventato più grave – un ladro di polli sempre tale rimane – ma perché quel poveretto meritava una possibilità. E così gli comminò sei mesi di carcere per furto aggravato e reiterato con l’obbligo di istruirsi e lavorare in carcere per cercare di migliorare le proprie condizioni di vita. 

Mario dapprima si buttò a terra e fece una gran cagnara, sinceramente preoccupato per la moglie che rimaneva da sola a sbarcare il lunario, ma il giudice gli promise che avrebbe interessato il Comune perché le assistenti sociali si prendessero cura di lei mentre lui era in carcere. Allora, allettato dalla prospettiva di mangiare tre volte al giorno e sapendo che nemmeno alla moglie sarebbe mancato il necessario, si calmò, si rialzò in piedi e si consegnò ai Carabinieri ancora sbigottiti per quella scenata perché lo accompagnassero alla sua cella. 
Lo fecero lavare, gli diedero un pantalone e una camicia più grandi di due taglie ma puliti e profumati di sapone e quella sera, per la prima volta da mesi, Mario mangiò a sazietà e dormì al caldo. 

La mattina successiva, dopo la colazione si presentò alla porta della cella un omino di mezza età con pochi capelli e l’aria seria che gli ordinò di seguirlo. Mario gli andò dietro senza fiatare. Dopo aver svoltato per un paio di corridoi si trovarono in una grande sala dietro alla mensa, con qualche armadio alle pareti e due grandi tavoli in mezzo. “Benvenuto nella nostra piccola biblioteca. Io sono Luigi, il responsabile. Il direttore mi ha parlato di lei: dice che il giudice le ha ordinato di istruirsi e allora vediamo di fare il possibile, con ciò che abbiamo a disposizione qui.”

Mario si guardò intorno con tanto d’occhi. Una biblioteca? Mai vista una! E per quanto piccola e sfornita fosse quella del carcere, gli sembrò che in quegli armadi vi fossero più libri di quanti lui ne avrebbe potuti leggere in una vita intera. Per fortuna almeno le scuole elementari le aveva fatte, dunque leggere non sarebbe stato un problema. Restava da capire cosa leggere per riuscire ad istruirsi. Mario era un buon lavoratore: sapeva potare gli alberi, arare un campo, trasportare carichi pesanti, mettere su un muro, “ma che lavoro potrò mai imparare da un libro?”, pensava tra sé.

Luigi gli disse di cercarsi un libro che gli piacesse e che poi l’avrebbero letto insieme. Mario cercò lungamente tra i pochi scaffali finché la sua attenzione fu attirata da un libro dallo strano titolo: “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”. Che mangiar bene fosse un’arte non ne dubitava, e per certo sapeva pure di non averla mai sperimentata. Per il resto non capiva cosa vi fosse di tanto scientifico in un uovo bollito o in una minestra ma cedette alla curiosità ed estrasse timorosamente il libro dal suo scaffale. 

Luigi trasalì sorpreso: tutto si sarebbe aspettato da uno come lui, tranne quella scelta ma lo assecondò. Si misero ad un tavolo e iniziarono a sfogliarlo. L’italiano molto forbito e decisamente anacronistico dell’Artusi gli diede non poche difficoltà e Luigi lo dovette aiutare in più occasioni a comprenderne il testo. 

Giunti in fondo alla prefazio, Mario si guardava intorno, un po’ smarrito. “Vuole scegliere un altro libro? Forse questo è troppo difficile?”, chiese Luigi. Mario scosse la testa risoluto e volle andare avanti nella lettura. Quello che aveva letto in qualche modo gli piaceva, nonostante ne avesse compreso forse la metà. Ancora non immaginava come ma sentiva che quel libro gli avrebbe potuto aprire delle porte. Lessero le norme di igiene e una parte del vocabolario dei termini toscani che però Luigi suggerì di rileggere successivamente, man mano che quelle strane parole si fossero presentate nel testo, per evitare di perderci troppo tempo inutilmente. 

Allora Mario scorse l’indice delle ricette e tra tutte l’occhio gli cadde sulla “torta tedesca”. Suo nonno era di origine tedesca e suo padre il tedesco lo parlava. Mario invece, di quella lingua aspra e difficile ricordava a malapena qualche parola ma quella ricetta lo incuriosiva parecchio, anche perché dolci non ricordava di averne mai mangiati, e insieme a Luigi iniziarono a leggerne il testo: ‘Raccontavano i nostri nonni che quando, sullo scorcio del XVIII secolo, i Tedeschi invasero l’Italia, avevano nei loro costumi qualche cosa del bruto; e facevano inorridire a vederli preparare, ad esempio, un brodo colle candele di sego che tuffavano in una pentola d’acqua a bollore, strizzandone i lucignoli […]’

Mario sapeva di essere povero ma il brodo di candele non ricordava di averlo mangiato mai, nemmeno nei momenti più disperati. Vergognandosi poi della propria ignoranza non ebbe cuore di chiedere a Luigi cosa fosse il sego. Sapeva che un brodo così non l’avrebbe mai voluto mangiare e tanto gli bastò. 

Però la ricetta del dolce, per quanto a ben guardare fosse piuttosto semplice, gli stimolava la voglia di fare qualcosa che in vita sua non aveva mai provato. Certo, per uno che raramente riusciva a mettere insieme due uova mendicandole da qualche anima caritatevole, utilizzarne ben otto per un dolce solo era quasi una bestemmia. Ma il libro parlava di scienza e la scienza, nella mente di Mario, era qualcosa da rispettare e non discutere né contraddire. Mai.

Era quasi ora di pranzo e a forza di leggere di cibi buoni e genuini, gli era venuta una gran fame.
La biblioteca stava comunque per chiudere e Luigi stava per proporgli di continuare l’indomani mattina, quando Mario lo stupì chiedendo in prestito il libro per poterselo leggere comodamente in cella, durante il pomeriggio.
Colpito da tanta buona volontà Luigi non si oppose e l’uomo tornò nella sua cella reggendo in mano il prezioso trofeo che nascose con cura sotto le coperte.

Dopo il pranzo tornò subito in cella e si rimise a leggere voracemente, come se quel libro, potesse saziare in una volta sola tutta la sua fame arretrata. Si trovò spesso in difficoltà con parole strane e sconosciute ma decise di andare avanti ugualmente, ripromettendosi di chiedere aiuto a Luigi il mattino seguente. 

Dopo una notte agitata e una colazione frettolosa, arrivò davanti alla porta della biblioteca addirittura in anticipo rispetto all’orario di apertura, con il suo Artusi ben stretto in mano. Quando Luigi arrivò quasi non gli diede il tempo di aprire la porta che già lo tempestava di domande, tanto che ad un certo punto questi trasse da un altro armadio un grosso librone e glielo mise davanti sul tavolo: “questo si chiama vocabolario e adesso imparerai ad usarlo!”.

Fece alcuni goffi tentativi a vuoto ma imparò ben presto a destreggiarsi anche con quello e si rimise a leggere con rinnovata avidità. Dopo pochi giorni aveva finito il libro e chiese a Luigi non, come questi si sarebbe aspettato, di averne un altro ma di poter parlare con il direttore.
Luigi non poteva promettergli nulla ma gli disse che avrebbe senz’altro fatto un tentativo.

Il mattino seguente si presentarono alla porta della cella due Carabinieri che lo scortarono nell’ufficio del direttore, un uomo dall’aria apparentemente burbera ma sotto sotto affabile e pure ben disposto nei suoi confronti, come ebbe a scoprire ben presto.
Mario non fece grandi giri di parole ed andò direttamente al punto: “signor direttore, il giudice mi ha ordinato di istruirmi e di lavorare. Allora, io istruito non lo sono mai stato ma in questi giorni ho letto più che in tutta la mia vita e credo di aver capito cosa posso fare qui. Quindi le chiedo di poter lavorare in cucina.”

Il direttore era colpito da tanta diretta sincerità ma non poté trattenere un sorriso di fronte all’ingenuità di quell’uomo volenteroso: “vede, signor Mario, lavorare in cucina non è per niente semplice. Bisogna sapere cosa fare e come farlo, ci sono delle norme igieniche da conoscere e seguire scrupolosamente e comunque fare da mangiare per molte persone non è come cucinare per sé e la propria famiglia. Però la sua buona volontà mi fa ben sperare. pertanto le propongo un patto: lei inizierà lavando i piatti e le pentole e dopo che avrà pulito tutto, uno dei cuochi le insegnerà ogni giorno qualcosa. Sappia però che il personale di cucina mangia sempre per ultimo, dopo che tutti in mensa hanno finito e se la sorprendiamo a rubare anche solo mezzo panino sconterà il resto della sua pena senza più muoversi dalla sua cella. Siamo d’accordo?”
Mario avrebbe voluto abbracciarlo ma vista la presenza dei due uomini in divisa alle sue spalle optò per una più opportuna stretta di mano. “Quando posso cominciare?”, chiese entusiasta. “Anche oggi stesso, se vuole”, rispose il direttore con un gran sorriso.

E così fu. Lo portarono in cucina, gli diedero un grande grembiule di tela cerata, dei grossi guanti di gomma e lo misero davanti ad un’enorme vasca piena di acqua saponata. Mario lavorò alacremente per finire il prima possibile e poter parlare con il cuoco che lo avrebbe istruito. All’inizio faticava a destreggiarsi tra soffritti, intingoli, tempi di cottura ma pian piano iniziò a capire e a confrontare quello che vedeva e sentiva con ciò che aveva letto nel suo prezioso libro, cominciando anche a farsi delle idee sue in materia.

Alla fine del primo mese il direttore lo convocò nuovamente nel suo ufficio. Mario temette di essere redarguito per quel pezzo di pane che aveva preso da un piatto e masticato velocemente qualche giorno prima. Invece il direttore gli parlò a lungo, gli fece i complimenti perché tutti i colleghi della cucina erano entusiasti di lui e gli consegnò una busta che lui aprì con circospezione trovandovi, con sua grandissima sorpresa, dei soldi. Al suo sguardo stupefatto il direttore rispose sorridendo: “chi lavora deve essere pagato e lei non fa eccezione. Quei soldi sono suoi e può farne ciò che desidera”.

Mario con le guance rigate di lacrime estrasse dalla busta due banconote e consegnò il resto al direttore perché lo facesse avere alla moglie che lo attendeva a casa. Il direttore era curioso: “che ne farà di ciò che si è tenuto? Qui in carcere non ha certo bisogno di soldi”. Mario accennò vagamente ad un debito da pagare e si congedò con una vigorosa stretta di mano.
Tornato in cucina chiese al cuoco di procurargli delle provviste. Gli diede i soldi ed un biglietto scritto con grafia incerta e si rimise subito al lavoro.

Nel pomeriggio il cuoco gli portò ciò che aveva chiesto e Mario chiese di poter rimanere in cucina a fare pratica anche dopo la cena. Ormai tutti si fidavano di lui e non vi furono difficoltà a dargli il permesso.

Nella notte tutti i detenuti sentirono un delizioso profumo provenire dalla cucina e si chiesero quale occasione speciale potesse esservi per qualcosa di tanto inusitato, in mezzo ai soliti odori di sughi e minestre. Sapevano anche però che, di qualunque cosa si trattasse, certamente non era destinata a loro e si rassegnarono a dormire, cullati da sogni di pantagrueliche mangiate.

Il mattino dopo, rientrando al lavoro, i cuochi trovarono Mario ancora in cucina, addormentato su una sedia. Sul tavolo accanto a lui troneggiava una grande teglia con quella che aveva tutta l’aria di essere una torta. Un po’ sbilenca, forse, ma dal profumo decisamente invitante, di mandorle e di caffè. Mario si svegliò di soprassalto, si parò davanti alla sua creazione perché nessuno la toccasse e chiese di poter parlare subito col direttore.

Si presentò nell’ufficio seguito dal codazzo dei suoi colleghi stupiti e ammirati, reggendo in mano trionfante la sua torta tedesca, cucinata durante la notte con gli ingredienti acquistati grazie al suo meritato stipendio di lavapiatti. Appoggiò con fare solenne il piatto sulla scrivania del direttore e gli disse: “signor direttore, io non sono bravo con le parole ma lei ha fatto molto per me e questo è l’unico modo che ho per ripagarla. Per favore, la assaggi e poi ne faccia avere una parte anche al signor giudice e al signor Luigi, perché anche con loro sono in gran debito”
Il direttore non si fece pregare e si tagliò subito una grossa fetta di quel dolce profumato, mangiandosela di gran gusto. “Complimenti, Mario! Uno dei migliori dolci che io abbia mangiato in vita mia”, il direttore non mentiva, “chiamerò qui il giudice e il signor Luigi oggi stesso per farlo assaggiare anche a loro”.

Tra gli applausi dei colleghi Mario rientrò in cucina per ricominciare col suo lavoro. Nel pomeriggio si presentarono nuovamente i Carabinieri alla sua cella per scortarlo dal direttore. Nell’ufficio erano già seduti Luigi e il giudice i quali, a giudicare dalle briciole sulle rispettive camicie, avevano già onorato la sua creazione.

Il primo a parlare fu proprio il giudice: “caro Mario, lo vedi che avevo ragione io a volerti tenere in galera? Dopo un solo mese la tua vita è già cambiata, non credi? E per farti ancora più felice ti comunico che oggi stesso potrai tornartene a casa tua, vista la buona condotta e l’impegno che hai dimostrato”. Mario si rattristò all’idea di perdere tutto ciò che aveva così faticosamente costruito ma il giudice, intuendo quello che passava nella testa dell’ormai ex detenuto, aggiunse subito: “inoltre, d’accordo con il direttore qui presente, abbiamo stabilito che il carcere ti assuma come aiuto cuoco, in modo che tu e tua moglie abbiate di che vivere dignitosamente per il resto dei vostri giorni.”

Mario non poteva credere a ciò che sentiva e questa volta, in sprezzo di qualunque prudenza, si lanciò sul giudice per abbracciarlo. Poi disse a Luigi di aspettarlo lì, ché voleva correre in cella a riprendere il libro per restituirlo ma Luigi decise che quel libro sarebbe stato meglio in mano di quel brav’uomo piuttosto che in biblioteca a pigliare polvere e glielo lasciò tenere.

E così andò che Mario continuò ad entrare ed uscire ogni giorno dal carcere, usando però la porta del personale e non più scortato dai Carabinieri per il portone principale. A casa sua non mancò mai più il necessario per vivere né il buon cibo cucinato a dovere. E la curiosità su cosa fosse il sego e di come ci si potesse fare il brodo – usando peraltro le candele – Mario decise di non volersela togliere mai.

Ripartire da zero

Notte del solstizio, la più breve dell’anno. Il chiarore che si fa strada all’orizzonte, il cielo nero che si colora in una serie infinita e irripetibile di sfumature mentre le stelle si perdono sullo sfondo.

Loris amava quei momenti, ma più di ogni altra cosa amava l’attimo in cui il mondo sembra ripartire da zero, quando, nella luce che aumenta, il silenzio improvvisamente si spezza nel canto di mille volatili che pare si sveglino tutti assieme e la termica che sale decisa dal fondovalle annuncia l’arrivo imminente dell’alba. 

Seduto su una panca fuori dal rifugio “Pelizzo” aspettava che i primi raggi del sole spuntassero da dietro le creste dei monti. Quella era la sua ricompensa, dopo una nottata di lavoro. Lavorava in fonderia, a Cividale, un lavoro faticoso, usurante, triste, ma lui a 26 anni si sentiva ancora forte e in grado di sopportare tutto. Tutto in cambio di un’alba, per ricominciare a vivere ogni mattina.

Era la felicità di tutti i suoi colleghi, Loris: da quando iniziava la bella stagione e fino all’autunno inoltrato chiedeva sempre i turni di notte, quelli che nessuno voleva fare, per avere la mattina libera e salire sul Matajur a vedere l’alba. 

Alcuni bonariamente lo prendevano in giro: “Ciriti une morose, no pierdi timp su pal Matajur![1].
Lui sorrideva, scrollava le spalle e andava via, ché non voleva correre per strada: voleva arrivare per tempo al rifugio, lasciare la macchina e dimenticarsi per un’ora il buio, il caldo, gli spazi chiusi, il rumore, l’odore di acciaio, olio e ruggine. Non ricordava di aver mai avuto grande attrazione per le ragazze, né gli interessava cominciare ora, diceva. 

Paola arrivò al parcheggio, scese dall’auto e si avvicinò silenziosa. Si sedette all’altra estremità della panca, attenta a non turbare il momento. Rimasero lì a guardare il cielo, muti, ché ogni parola sarebbe stata di troppo. Spuntarono finalmente i primi raggi del sole a illuminare i loro visi. Allora lei prese coraggio e a mezza voce disse: “Che spettacolo!”

Lui quasi non girò la testa, con gli occhi socchiusi fece un mezzo sorriso e annuì. Poi si alzò e con passi lenti, lo sguardo fisso verso il sole, si incamminò un po’ zoppicante verso il parcheggio. 

Paola, gli occhi già gonfi di lacrime, lo guardava allontanarsi verso la sua vecchia Golf scassata, quella stessa auto con cui Loris era volato giù dal penultimo tornante del Matajur, giusto tre anni prima. Nessuno aveva capito come fosse successo, Loris era un guidatore prudente, forse un colpo di sonno. Quando aveva detto ai colleghi che sarebbe salito lassù a vedere l’alba del solstizio qualcuno lo aveva sconsigliato: “Sarai stanco, perché non vai a casa a dormire, invece?”, ma lui non ascoltò nessuno. In auto aveva già messo la macchina fotografica e un thermos di caffè, che non bastò.

Sei mesi di ospedale, tre in coma, e poi quel responso: “Danno post-traumatico semipermanente della memoria rievocativa. Disturbo esteso della memoria di fissazione con amnesie anterograde. Si rinvia a successive periodiche rivalutazioni per eventuale reversibilità dei fenomeni riscontrati“.

Amnesia, dunque. Come spesso aveva visto in quei vecchi film polizieschi che tanto aveva amato, Loris ricordava poco o nulla della vita prima dell’incidente: i suoi genitori, la casa in cui viveva, il lavoro. Di Paola nemmeno un accenno, eppure era dall’ultimo anno delle superiori che stavano insieme. L’aveva guardata con occhi smarriti dal proprio letto di ospedale, rivolgendo poi lo stesso muto sguardo interrogativo a sua madre che con tutta la dolcezza del mondo gli aveva risposto: “Ma è Paola, non te la ricordi?”.
No, non se la ricordava. Cancellata, un viso tra tanti. Quattro anni spariti nel nulla, come un rivolo d’acqua assorbito dalla terra riarsa.

Ma la seconda parte della diagnosi era, se possibile, ancora più disperante: Loris non tratteneva i ricordi recenti. Tutto ciò che non faceva strettamente parte della sua collaudata routine quotidiana si azzerava ogni giorno, come un nastro continuamente riavvolto e fatto ripartire da capo.

I medici avevano raccomandato di mantenere il più possibile invariato l’andamento delle sue giornate, per aiutarlo a ricrearsi una quotidianità da ricordare stabilmente. Perché quella, a lungo andare, sarebbe potuta essere la chiave di volta: l’unico modo per lui di riprendersi almeno in parte i suoi ricordi e forse, un giorno, di riuscire a ricostruire anche quelli più lontani.

Il padre aveva speso una fortuna per far riparare l’auto e restituirgli un pezzo di memoria; la fonderia aveva assecondato tutte le sue richieste riguardo agli orari e lo aveva reinserito nel ciclo produttivo, che lui peraltro dimostrava di ricordare bene. C’era poi quell’appuntamento di ogni mattina sul Matajur, forse un retaggio inconscio dell’ultima esperienza vissuta prima di schiantarsi in quella scarpata assieme a tutti i suoi ricordi, che lui ripeteva come un disco rotto finché il freddo e il ghiaccio sulla strada non glielo impedivano.

Paola aveva provato in tutti i modi ad inserirsi in quelle giornate tutte uguali, per risvegliare i ricordi dell’affetto e delle premure, dei libri letti assieme, dei viaggi, dei progetti. Ma lui sembrava rivestito di una corazza impenetrabile: la teneva a distanza come fosse un’estranea, senza mai dare segno di riconoscerla e dimenticandosi fatalmente ogni giorno dei loro incontri precedenti.

Paola attese, come ogni mattina, di sentir chiudere la portiera dell’auto, poi emise un triste sospiro che subito si ruppe in pianto: sentiva su di se’ tutto il peso di quella “eventuale reversibilità” che a conti fatti, dopo quasi tre anni di tentativi andati a vuoto, sentiva sempre più lontana e irraggiungibile.
Sola su quella panca singhiozzava col viso tra le mani, tanto da non accorgersi che la Golf quella mattina non era ripartita.

Rimase lì per un tempo indefinito. Poi improvvisamente si riscosse: si stava facendo tardi e c’erano le solite cento cose da fare, prima dell’alba successiva. Aprì la borsa per cercare un fazzoletto e si bloccò, impietrita a guardare Loris, fermo in piedi davanti a lei, che a sua volta la squadrava, come incuriosito da una novità imprevista.

“Stai male?”, le chiese. “Posso fare qualcosa?”

La sua voce! Era la prima volta che la risentiva, dopo tutto quel tempo da completi estranei. Le mani annasparono nel vuoto, mentre la borsa rotolava a terra, Paola fece di no con la testa, sforzandosi di sorridere in un poco convincente tentativo di negare la realtà.
Si asciugò frettolosamente gli occhi col dorso della mano, mentre continuava a fissarlo, a bocca aperta. Si sentiva sciocca: aveva tanto atteso quel momento, avrebbe avuto così tanto da dirgli, ma le parole non riuscivano a superare la barriera dell’emozione.

Lui sembrava intento a studiarla, la testa leggermente piegata da un lato, un riflesso diverso negli occhi, come uno spiraglio di luce da una porta socchiusa: “Ma sai che mi sembra di conoscerti? Non è che ci siamo già visti da qualche parte?”.
“Può essere”, rispose lei prudente, la voce ancora rotta dal pianto di poco prima, un vero sorriso che finalmente si faceva strada sul viso, increspandole dolcemente le labbra.

Loris le si inginocchiò davanti, raccolse la borsa porgendogliela con un sorriso timido: “Io torno qui anche domani. Perché non vieni anche tu?”


[1] “Ma cercati una fidanzata, invece che perdere tempo sul Matajur!”

Kugelhupf

Ma la finite di pavoneggiarvi con la vostra presunta bravura in cucina? La smettete di citare a sproposito quel gran genio dell’Artusi? Di riempirvi di boria criticando l’ultima puntata di Masterchef mentre cucinate minestrine insipide?

Che poi, in quanti l’avete letto veramente, l’Artusi? Sono certo che non più di cinque di voi sapranno elencarne qualche ricetta a memoria.
Prendiamo, che ne so, la ricetta del Kugelhupf, dolce tipico del nord-est, di grande eredità austroungarica.
Come lo so? Lo so. Accontentatevi. Mica vi devo raccontare tutto.

Ma torniamo a voi: quanti saprebbero farlo?

Nessuno risponde?

Paura come a scuola, vero? Quando vi nascondevate sotto il banco per evitare l’interrogazione… eh, lo so…
Perché l’Artusi, almeno il titolo, si cita sempre – fa così tanto figo! – ma poi, quando dovete mettervi ai fornelli per fare un dolce vi riducete sempre a fare la solita crostata con la solita pasta frolla pronta in rotolo e la solita confettura di albicocche finto bio del discount sotto casa. Lo so, eh se lo so!

E INVECE NO! La cucina va sudata, vissuta, è una missione per conto di dio! Il vostro dio è l’Artusi, “La scienza in cucina” il suo santo vangelo, io sono il vostro sergente Hartman e voi? Voi non siete né sarete mai nemmeno degni di accostarvici, che ve lo dico a fare? “Perché?” mi domanderete.

PERCHÉ?

Ma perché senza il robot da cucina – o almeno lo sbattitore – non sapreste nemmeno da dove iniziare!
Sbaglio? Davvero? E allora vediamo la ricetta e parliamone.
Iniziamo dagli ingredienti:

Farina d’Ungheria o finissima, grammi 200
Burro, grammi 100
Zucchero, grammi 50
Uva sultanina, grammi 50
Lievito di birra, grammi 30
Uova, uno intero e due rossi
Sale, un pizzico
Odore di scorza di limone
Latte, quanto basta

E già vi vedo, tutti pronti alla pugna nazional-salutista:
TRE UOVA?!? Ma sono tantissime, per soli 200 grammi di farina!”;
Il burro! Ma non lo si può sostituire con l’olio di oliva, o con lo yogurt, che è meno grasso?
Il colesterolo!”;
Il fegato!”;
Aita!”;
Soccorso!”;
Accorruomo!
La farina d’Ungheria? Ma non possiamo usare prodotti italiani?

Ma vi devo pure rispondere? NO! Non si può!

Le uova non le potete diminuire, altrimenti il vostro dolce non sta insieme!
Il burro nei dolci lievitati è necessario – ma, che dico? INDISPENSABILE! – e non è certo più pesante di quei panini untuosi che mangiate al fast-food senza minimamente sentirvi in colpa – né pensare a quanto male ne direbbe l’Artusi, peraltro.

E poi la farina: scommetto che siete andati subito a cercare su google che cosa sia la ‘farina d’Ungheria‘ e la rete delle reti vi ha risposto che si tratta di ‘farina di grano, molto ricca di glutine, simile alla Manitoba’.

E via tutti a dire: “e allora usiamo la Manitoba! Mangiamo italiano!”.
Certo, come no, usando la farina fatta col grano canadese.

Complimenti. Bravi proprio.

Volete che andiamo avanti? Sicuri? Andiamo avanti, problemi vostri:

Intridete il lievito col latte tiepido e un pugno della detta farina per formare un piccolo pane piuttosto sodo; fategli un taglio in croce e ponetelo in una cazzarolina con un velo di latte sotto, coperta e vicina al fuoco, badando che questo non la scaldi troppo. […]’

Semplice, vero? E allora fatelo e poi ditemi com’è andata. Dai: vi aspetto al varco…

Ma cosa vuol dire ‘piuttosto sodo’…?
Quanta farina è ‘un pugno’…?
Intridere…? Ma il lievito non si deve sciogliere?
Cosa vuol dire ‘latte, quanto basta’…?

Eccoli lì. Ma perché chiedete? Non siete voi i genî del polsonetto? Quelli che dovrebbero andare a Masterchef un giorno sì e l’altro pure (ma poi non ci andate perché ‘eh, sai, il lavoro, i figli, la zia vedova…’). Non siete voi quelli che volevano aprire il ristorante ma che poi non l’hanno fatto ‘per non umiliare gli amici’…?
Che dire… siete altruisti da fare schifo! Dei veri boy scout! Volete anche la medaglia?

Comunque, visto che ne avete evidentemente bisogno: ‘un pugno’, ‘quanto basta’, ‘piuttosto sodo’ sono come il sale nell’acqua della pasta. Lo vorrete mica pesare, no?
E tanto vi basti. I cuochi siete voi.

Intridere’ è normale, se si usa il lievito di birra.
O pensavate forse di usare quel puzzolente lievito istantaneo in polvere con cui preparate in dieci minuti quelle vostre orrende pizze casalinghe che sanno di cartone?
Siamo seri, suvvia. Altrimenti non chiedete, anzi: non cucinate proprio, ché tanto non ne siete capaci.

Insomma, torniamo al nostro dolce: avete il vostro bel panetto di pasta lievitata – se fortunosamente non l’avete messo troppo vicino al fuoco e non l’avete bruciato (e comunque bastava metterlo nel forno con la sola luce accesa, ve lo dico ora che avete certamente già sbagliato perché in fondo anch’io ho un cuore) – e ora? E ora proseguiamo:

D’inverno sciogliete il burro a bagno-maria poi lavoratelo alquanto coll’uovo intero, indi versate lo zucchero e poi la farina, i rossi d’uovo, il sale e l’odore, mescolando bene. Ora, aggiungete il lievito che nel frattempo avrà già gonfiato e con cucchiaiate di latte tiepido, versate una alla volta, lavorate il composto con un mestolo entro a una catinella per più di mezz’ora riducendolo a una consistenza alquanto liquida, non però troppo […]’

E in estate? Il burro lo devo fondere ugualmente?

NO. In estate questo dolce non lo fai. È un dolce invernale, non lo vedi, genio? E infatti lo devi lavorare per più di mezz’ora. A mano, così risparmi pure sul riscaldamento.
Perché l’Artusi mica ce l’aveva l’impastatrice, nel 1800. Qui si vede il vero cuoco: quello che le cose le sa fare anche senza le macchine.

Anzi: SOPRATTUTTO senza le macchine, che diamine!

Ma perché lo chiedete a me, come si fa? Dovreste saperlo voi.
O senza la frusta-a-gancio-attaccata-sulla-planetaria non sapete nemmeno dove state di casa?
Lavorare! Muscoli! Movimento! Devo spiegarvi anche come impugnare il cucchiaio, razza di rammolliti?

Per ultimo versate l’uva e mettetelo in uno stampo liscio imburrato e spolverizzato di zucchero a velo misto a farina, ove il composto non raggiunga la metà del vaso che porrete ben coperto in caldana o in un luogo di temperatura tiepida a lievitare, al che ci vorranno due o tre ore. […]’

TRE ORE?!? Ma io non ce l’ho tutto quel tempo! Devo portare mia figlia a danza/spostare il disco orario dell’auto parcheggiata in terza fila/andare a farmi i capelli/in palestra/dal dentista…

E allora non fai i dolci in casa, ciccio. Vai in pasticceria, li trovi belli e fatti, li paghi un botto e ti perdi la soddisfazione.
Ma perché continuate a chiedere? E perché proprio a me? Che vi ho fatto?

Quando sarà ben cresciuto da arrivare alla bocca del vaso, mettetelo in forno a calore non troppo ardente, sformatelo diaccio, spolverizzatelo di zucchero a velo o se credete (questo è a piacere) annaffiatelo col rhum.

Scommetto che la parte del rhum è quella che vi è piaciuta di più.

No. Non ve la spiego, la battuta.

Fatelo raddoppiare di volume’, questo significa quando dice che l’impasto deve ‘crescere fino alla bocca del vaso’. Ma perché spreco ancora il mio tempo con voi?

Sformatelo diaccio’ significa che dovete farlo raffreddare nella sua teglia (e prima ancora deve intiepidire nel forno socchiuso, ché altrimenti ne fate una frittella)!

Perché cucinare è un’arte e la dovete imparare a forza di errori madornali! Come il soufflé sciolto di Sabrina, ve la ricordate, la Hepburn finta stordita che si dimenticava di accendere il forno mentre si sdilinquiva per William Holden, (senza immaginare peraltro che poi sarebbe finita dritta dritta nelle braccia di quell’altro sciupafemmine di Humphrey Bogart)?

Ecco. Ma non illudetevi: voi non siete nessuno dei tre.

E non sapete nemmeno cucinare.

Come lo so? Perché io ho letto l’Artusi, è ovvio!

E guai se non l’avessi fatto, perché altrimenti tutti questi bei consigli, oggi, chi ve li dava?

Però ora scusate, ma non ho altro tempo da perdere con voi, ché il microonde ha appena finito di scongelarmi la lasagna.
Non mi vorrete mica far perdere la sfida tra Cracco e Cannavacciuolo in TV, vero?