L’auto bianca si fermò davanti al vecchio capannone abbandonato, sulla cima della collina. Vi fu un lungo minuto di profondo silenzio, prima che la portiera del passeggero si aprisse e ne scendesse una figura agile che fece il giro dell’auto e andò ad aprire dal lato del guidatore, spense le luci, sganciò la cintura dell’uomo seduto al volante e lo tirò fuori di peso, trascinandolo dentro il capannone.
Una volta all’interno lo trascinò ancora fino ad un cerchio di corde sospese a cui erano già legate altre quattro persone addormentate, o forse svenute, gli strinse dei cappi già pronti intorno alle caviglie, uno più grande attorno al torace, tirandolo su fin sotto le ascelle, e gli ultimi due attorno ai polsi. Poi si spostò al centro del cerchio e iniziò a tirare l’altra estremità della corda, issando il corpo inerte fino a una trentina di centimetri da terra, fissando poi la corda legata alle caviglie a un paletto infisso a terra. A quel punto tirò su il cappuccio della felpa e si sedette in silenzio in un angolo buio ad attendere.
Si riscosse solo quando iniziò a sentire i primi lamenti e si rimise al lavoro: prese da un angolo una grossa tanica e iniziò a cospargere con il liquido trasparente prima il pavimento di cemento e poi le gambe e i piedi delle persone appese alle corde, che iniziarono decisamente a svegliarsi e a rendersi conto della scomoda posizione in cui si trovavano, mentre l’uomo prese un’altra tanica versandone parte del contenuto in una specie di grossa ciotola metallica al centro dello strano cerchio.
A quel punto erano tutti completamente svegli e si guardavano intorno stupiti e allarmati dal forte odore di benzina che aleggiava nell’aria. Il primo a prendere la parola fu l’ultimo ad essere stato portato lì: “Carlo, cosa diavolo significa questa pazzia, cosa vorresti fare? Vuoi spaventarci? Parla!”
L’uomo rimase in silenzio, in attesa della reazione degli altri che non si fece attendere troppo, con le due donne che iniziarono quasi nello stesso istante a urlargli contro di lasciarle andare, presto incalzate anche da uno dei due uomini rimanenti, mentre l’altro rimaneva ostinatamente silenzioso.
Lui allora si spostò in piena luce, abbassando il cappuccio della felpa e ruotando lentamente su se stesso perché tutti potessero vedere chiaramente il suo viso.
Lo stupore ammutolì tutti, mentre l’uomo chiamato Carlo disse: “In verità…” ma subito si fermò. Sembrava cercare dentro di sé le parole per iniziare un discorso a lungo immaginato e progettato. Si schiarì la gola e ricominciò a parlare con voce assurdamente pacata: “Verità… che parola inutile… che cos’è la verità? Me lo sono chiesto io per primo un’infinità di volte, in questi trent’anni, sapete? Dal giorno in cui mi arrestarono ho continuato a cercare – senza peraltro mai trovarla – una risposta soddisfacente. E in tutti questi anni nessuno di voi mi è mai venuto in aiuto, forse perché non avete mai avuto il coraggio di venire a parlarmi, mentre ero in carcere per qualcosa che non avevo commesso…”
“BALLE!”, intervenne nuovamente l’ultimo arrivato riprendendosi con veemenza la scena: “Avevi tutte le prove contro e non avevi un alibi, cos’altro avrebbero dovuto fare i carabinieri, cercare altrove? E per quale motivo? Gli hai servito la soluzione su un piatto d’argento!”
Quasi tutti i presenti annuirono silenziosamente, ma Carlo non fece una piega: “Diciamo, caro Fabrizio, che la cosiddetta soluzione non l’ho certo fornita io, ma l’anonimo fotografo che si è premurato di far avere ai carabinieri quelle mie immagini, riprese mentre caricavo sacchi di patate nel bagagliaio dell’auto…”
“Già, peccato che in uno di quegli stessi sacchi avessero appena trovato il corpo della povera Marianna e che tu non abbia mai potuto provare che quelle che stavi caricando in auto – in piena notte! – fossero veramente patate”, proseguì Fabrizio, rincuorato dagli sguardi di assenso degli altri.
“Lo sai bene che i carichi per il mercato li facevamo sempre di notte” ribatté Carlo, “e che quel giorno avevamo il furgone guasto”. “Come no!”, lo rintuzzò Fabrizio, “infatti il giorno dopo i carabinieri lo misero in moto al primo colpo! Gran bell’alibi!”
Carlo si fermò un attimo, pensoso: “Quindi nessuno di voi ha mai avuto il minimo dubbio? Eravate – e siete ancora – tutti fermamente convinti che Marianna, la mia amata Marianna, l’abbia ammazzata io?”
“Ma quale amore! Marianna non ti amava!” intervenne una delle due donne, “Era piena di dubbi su di te. Eri tu che ti illudevi e le hai fatto una corte serrata per mesi, mentre era chiaro a tutti noi che i suoi pensieri fossero rivolti a qualcun altro!”
La risolutezza di Carlo vacillò per un attimo, ma si riprese subito: “Elena cara, finalmente risento la tua voce, che piacere” disse con un sorriso gelido, “Dimmi, visto che a tutti voi era tutto così chiaro, tu ci hai mai parlato con Marianna? Te le ha dette lei queste cose? Non mi pareva foste particolarmente intime, anzi: mi ricordo che tu e la tua degna comare Beatrice, qui presente, la teneste abbastanza in disparte, viste le sue gravi colpe di non avere abbastanza disponibilità finanziaria per adeguarsi ai vostri standard di eleganza, ma soprattutto di non mostrare abbastanza apertura e disponibilità verso il genere maschile. Non quanta ne aveste voi due all’epoca, almeno”
“Stronzo…” mormorarono tra i denti Elena e Beatrice, quasi all’unisono, subito riprese da Fabrizio: “Dai, Carlo, non giriamoci tanto intorno: Marianna non sapeva che farsene, di te. Cosa potevi mai darle tu, che passavi le giornate dietro ai trattori e ai campi di tuo padre, che puzzavi sempre di sudore e letame e non avevi mai tempo per altro che non fosse il tuo… lavoro?”
Carlo lo guardò tristemente: “Perché parli con tanto disprezzo del mio lavoro, proprio tu che un lavoro vero non l’hai mai nemmeno cercato? Cosa sei diventato adesso, sei già onorevole? Ho smesso di cercare tue notizie sui giornali quando eri ancora un rampante assessore regionale, ma già allora stavi facendo una rapida… carriera,” il tono era ugualmente, volutamente sprezzante, “tra sospetti di corruzione e manovre elettorali ben oltre il limite del lecito…”
“Ma cosa c’entra questo, adesso? Spiegaci piuttosto cosa ci facciamo noi qui e che intenzioni hai!”, lo interruppe un altro. Carlo lo fissò lungamente, prima di decidersi a parlare: “Ben arrivato tra noi, Filippo, anzi: Filippo il bello, come ti chiamavamo all’epoca… bello e perfido come il tuo più illustre omonimo, peraltro. Cos’è, hai paura che ti si rovini la messa in piega? Hai paura che le donne non ti si avvicinino più perché avrai delle cicatrici? Tu che mi hai sempre mandato in avanscoperta in tutte le situazioni pericolose, tu che mi spingesti dritto tra le braccia – anzi: tra i pugni – di quello sconosciuto energumeno che ci stava minacciando, quella sera in spiaggia, una settimana prima che Marianna morisse, e approfittasti del tempo che quello ci mise a stendermi per dileguarti, assieme a tutti gli altri, ovviamente. L’unica che non voleva andarsene era proprio Marianna, che continuò a chiamarmi anche da lontano, mentre voi cuor di leone sparivate come scarafaggi nel buio.” Carlo si fermò, come se stesse rivivendo la scena nella sua mente, poi riprese: “Me ne tornai a casa a piedi, quella notte, lo sai? Perché nella colluttazione persi le chiavi dell’auto, chissà dove, in mezzo alla sabbia e di certo non volevo rischiare di tornare lì a cercarle: ero già abbastanza pesto e sanguinante. Voi vi dileguaste sulle vostre auto e a nessuno passò nemmeno per l’anticamera del cervello di tornare a cercarmi. Anche tu avevi messo gli occhi addosso a Marianna e non ti parve vero, quella notte, di lasciarmi indietro a mangiare polvere al posto tuo, vero? Ci provasti subito, a portartela a letto?”
“BASTA!” intervenne l’unico che fino a quel momento era rimasto in silenzio, “Ma non vi rendete conto che siamo qui appesi come salami, alla mercé di Carlo e dei suoi evidenti desideri di vendetta? Perché perdete tempo a litigare come ragazzini? Siete rincoglioniti o cosa? E tu, Carlo, ci vuoi spiegare una buona volta cosa vuoi? Vuoi farci fuori tutti per vendicare Marianna e la tua vita rovinata? Sei conscio che questo è sequestro di persona? E che se farai dei gesti sconsiderati sarà anche omicidio aggravato? Roba da ergastolo, lo sai? Vuoi finire il resto dei tuoi giorni in carcere? Sei appena uscito, mi pare…”
“Mi mancava la tua voce, Giovanni.”, disse Carlo con un tono di voce stranamente dolce, “Sei forse l’unica persona di cui ho sempre avuto la massima stima, in questo gruppo. Ti ritenevo l’unico mio vero amico, e infatti sei anche l’unico che ha provato a testimoniare in mio favore. Poi però sei sparito pure tu, come tutti gli altri. Perché?”
Giovanni sospirò pesantemente prima di parlare e lo fece senza mai abbassare lo sguardo:
“Forse perché avevo paura di scoprire che Marianna l’avessi veramente ammazzata tu? Perché magari avevo paura di grattare la superficie e trovare, sotto l’immagine di persona pacata e giudiziosa che ho sempre visto in te, un mostro, capace di strangolare per un banale rifiuto una ragazza dolcissima come lei, colpevole forse solo di essersi innamorata di un altro? Non ho mai creduto veramente alla tua colpevolezza, anche se molti indizi erano contro di te, e dopo la morte dei tuoi ho preferito tenermi il dubbio e non venire mai a cercare la verità. Avrei preferito morire io, piuttosto che scoprire che eri veramente stato tu.”
“Grazie, avvocato Bernardi”, intervenne ironicamente Fabrizio, “Peccato che all’epoca non fossi ancora iscritto all’Ordine, altrimenti rischiavamo di avere vittima, colpevole e avvocato difensore, tutti pescati dalla stessa compagnia. Pensa che filotto!”
“Taci, Fabrizio, ti prego”, riprese freddamente Giovanni fulminandolo con un’occhiata torva, “Questa tua innata capacità di fare le battute peggiori nel momento più sbagliato l’ho sempre odiata. So che ci hai costruito sopra la tua carriera politica, ma proprio per questo ti ho sempre ritenuto un grandissimo stronzo e lasciami dire che il tuo comportamento all’epoca non fu così limpido come tu ti sei sempre sforzato di far vedere. E comunque sbagli, ero già iscritto all’albo: avevo sostenuto l’esame due settimane prima, solo che ancora non avevo iniziato a praticare. Ma torniamo a noi e a problemi ben più impellenti: come dicevo poco fa, ho sempre visto il nostro Carlo come un uomo giudizioso e assennato, forse fin troppo, per la sua età. Ma purtroppo questa messa in scena non mi fa ben sperare: mi sa che trent’anni in carcere gli hanno fatto perdere il senno”, si interruppe fissando Carlo negli occhi: “O forse ti stai finalmente rivelando per quello che sei sempre stato? Dovevo aspettare la fine della mia vita per scoprire che il mostro eri veramente tu?”
Carlo aveva una luce strana negli occhi, mentre riprese a parlare: “Vedete, ragazzi, trent’anni in carcere da innocente mi hanno fatto riconsiderare molte priorità. Mi hanno sempre trattato come una bestia, là dentro, nemmeno per il funerale dei miei genitori mi lasciarono uscire! Ricordate? Erano venuti a trovarmi in carcere per dirmi che stavano prendendo accordi con un giovane avvocato per ricorrere in appello ed ebbero quel terribile incidente sulla via del ritorno: finirono dritti giù per la scarpata senza nemmeno tentare una frenata. Il direttore all’epoca mi disse: «Mi creda, sono estremamente dispiaciuto per la sua perdita, ma l’eco del suo efferato delitto è ancora troppo forte, in città, Gignoni. Non mi pare il caso che lei si faccia vedere fuori così presto. Che figura ci farebbe la giustizia, se le dessimo un permesso dopo soli sei mesi dalla sua condanna? Non saremmo credibili, le pare?» e infatti,” proseguì mestamente Carlo, “lo sapete quando ho potuto portare per la prima volta un fiore sulla tomba dei miei e su quella di Marianna? Due settimane fa, appena uscito dal carcere. Ho scontato la mia condanna fino all’ultimo giorno, senza mai un permesso né una proposta di riduzione di pena, anche se mi sono sempre comportato in maniera impeccabile. «Lei è un bravo attore, Gignoni», mi ripeteva spesso il direttore, «ma io amo la vita vera, non il teatro e sono abituato a guardare nell’anima di chi ho davanti, senza finzioni. E la sua non mi piace per nulla, Gignoni, per nulla!». Andò in pensione pochi mesi fa, risparmiandosi il dispiacere di dover aprire la porta per farmi uscire, come ebbe a dire più volte.”
“Ero io quel giovane avvocato”, lo interruppe Giovanni tra gli sguardi stupiti degli altri, “Come dicevo prima, ero già iscritto all’albo e cominciai la mia attività proprio con il tuo caso, Carlo. Avevo buone speranze di ottenere – se non un ribaltamento completo della sentenza – almeno una profonda revisione: eri incensurato, c’erano, sì, parecchi indizi contro di te, ma anche diversi punti oscuri sui quali nessuno si era premurato di indagare. I carabinieri ricevettero quelle Polaroid anonime, fecero due riscontri mirati e le indagini si fermarono lì: secondo loro non c’era bisogno d’altro. Ma tuo padre era assolutamente certo che non fossi stato tu. Anzi: diceva di avere dei forti sospetti su altre persone e che sarebbe andato fino in fondo per tirarti fuori dal carcere. Non riuscì mai a dirmi i nomi, né lasciò scritto qualcosa. Tuo fratello era troppo sconvolto e dei sospetti di vostro padre non sapeva nulla. Mi diede dei soldi per il disturbo e la cosa finì lì.”
Per la prima volta Carlo ebbe un vero tentennamento: “E perché non hai mai detto nulla? Perché non sei venuto a parlarmene?”
“Non avevo nulla in mano: tuo padre si portò nella tomba quello che sapeva. Cosa avrei dovuto fare? Illuderti? E poi c’era quella mia paura di cui ti dicevo prima: quella mi impedì di proseguire, anche se forse con un po’ di fortuna e di tenacia qualcos’altro avrei potuto trovare. Non sai quante volte ci ho ripensato e quanto mi sia pentito di non aver tentato ugualmente.”
“Grazie, Giovanni.”, disse Carlo con un sospiro, “Anche se non è servito a nulla, ti ringrazio di averci almeno provato, ti fa onore. Però ti renderai conto che nonostante questo io non possa lasciarti andare: correresti subito a chiedere aiuto e mi rovineresti tutto. Sono anni che progetto tutto questo, che provo e riprovo nella mia testa la sequenza giusta delle cose da fare, che penso a come procurarmi i sonniferi che ho usato per stordirvi e portarvi qui. Ci ho messo una settimana per studiare le vostre abitudini e trovare il luogo e il momento giusto per prelevarvi senza dare nell’occhio…”
“Ma ti beccheranno subito!” disse infuriato Fabrizio, “Credi che non ti stiano alle costole, che non abbiano immaginato anche loro che volessi fare qualche stronzata? Anzi, ti dirò che probabilmente ci stanno già cercando tutti!”
“Tutti chi?”, lo interruppe Carlo, “Hai detto a tua moglie che saresti uscito a bere una birra con un vecchio amico, no? Da quello che ho visto, non rincasi mai prima che sia notte fonda, quando lasci il pied a terre dove vive la tua amante. Filippo vive da solo, il marito di Elena è via per lavoro, quello di Beatrice l’ha lasciata sei mesi fa e anche Giovanni è rimasto scapolo. Inutile che vi illudiate: prima di domani nessuno verrà a cercarvi. O forse vedranno il fuoco e verranno a vedere che succede, ma non vi aiuteranno. Non potranno aiutarvi. E poi io sono già partito per la Francia. Ieri pomeriggio, dall’aeroporto di Malpensa”, si prese una lunga pausa per assaporare gli sguardi esterrefatti dei suoi interlocutori, poi riprese: “In carcere ho trovato un mio sosia quasi perfetto. Gli ho pagato una vacanza a Parigi e so che non mi tradirà. Ci siamo scambiati i documenti e io sto girando da due settimane con barba e baffi finti e una bella parrucca nera in testa: sono certo che nessuno mi abbia riconosciuto: vi sono passato davanti cento volte, in questi giorni, e nessuno di voi ha nemmeno lontanamente sospettato di avere davanti Carlo Gignoni in persona!”
L’atmosfera si era fatta estremamente pesante e Carlo riprese in mano la tanica con la benzina, finendo di versarla nell’improvvisato braciere al centro del cerchio di corde, poi ne prese un’altra e bagnò nuovamente il pavimento di cemento sotto i loro piedi, che ancora sgocciolavano. Nessuno parlava. Carlo estrasse da una tasca una busta chiusa: “Qui dentro c’è tutta la spiegazione per ciò che succederà qui tra poco. Io questa notte ho un volo in partenza per il Brasile: sparirò dalla circolazione e non mi troveranno mai più. Speravo che tutto questo servisse a scoprire la verità, ma o siete tutti troppo cocciuti o siete veramente innocenti anche voi. Nel dubbio, non posso lasciarvi andare: vorrete mica farmi tornare in carcere? Ho già dato, grazie.”
E così dicendo, prese da una scatola un rotolo di nastro da pacchi, ne strappò un pezzo e uscì ad incollare la busta sul parabrezza dell’auto parcheggiata lì fuori: Rientrando disse, con un mezzo sorriso: “Non possono mica bruciare anche le spiegazioni, no? Mi basta che bruciate voi, e che se ne conosca il motivo. Vi auguro buon viaggio.” E senza aggiungere altro estrasse di tasca un accendino a benzina, lo accese e lo gettò dritto in mezzo a loro, sulla benzina appena versata. La fiammata si alzò con un rombo violentissimo, coprendo le urla e il rumore della pesante porta che si chiudeva alle sue spalle.
Con gran sorpresa di tutti, però, il fuoco rimase confinato ben lontano da loro e non si allargò sul pavimento, né sotto i loro piedi o sui vestiti inzuppati: si limitò a bruciare le corde che li tenevano bloccati e dopo pochi minuti si esaurì da solo, lasciandoli frastornati a terra, con le corde che non stringevano più polsi e caviglie, dalle quali ben presto si poterono tutti liberare con facilità.
Uscirono tossendo e rimasero per lunghi minuti distesi sull’erba fresca a respirare avidamente. Elena fu la prima a ricordarsi della busta e si alzò di corsa per strapparla dal parabrezza dell’auto. Prese il cellulare di tasca per farsi luce, estrasse i fogli e iniziò a leggere ad alta voce, senza che nessuno gliel’avesse chiesto: «Mi spiace per questa follia, speravo che almeno di fronte alla minaccia della morte, il vero colpevole saltasse fuori. Invece, o non vi ho fatto abbastanza paura oppure – e mi duole ammetterlo – siete tutti innocenti anche voi. Avevo dei sospetti – dei fortissimi sospetti! – anch’io, come mio padre, ma isolato in carcere com’ero non ho mai potuto fare nessun tipo di ricerca, a parte leggere i giornali. E la scomparsa improvvisa dei miei ha distrutto le poche speranze che ancora avevo di trovare la verità. Io non sono come voi, nella mia vita non ho mai fatto volontariamente del male a nessuno, e mai ne avrei mai fatto a nessuno di voi, nemmeno se fossi stato certo della vostra colpevolezza: per risparmiarvi le ustioni, se la benzina avesse fatto una fiammata troppo violenta, vi avevo anche cosparsi di acqua e glicerina, la stessa che ho abbondantemente versato a terra. Volevo andarmene con un peso in meno addosso, volevo poter lasciar riposare in pace Marianna, ma non era destino. Perdonatemi, se potete.»
Il lungo silenzio che seguì fu rotto da un’improvvisa e sguaiata risata. Era Fabrizio che li guardava tutti con l’aria di chi la sa lunga e urlò: “STUPIDO VIGLIACCO! Carlo Gignoni, ovunque tu sia, sappi che sei sempre stato uno stupido vigliacco! «Non ho mai fatto del male a nessuno»” lo scimmiottò, “Idiota! Non hai mai saputo fare i tuoi veri interessi, piuttosto! Non fare del male a nessuno significa essere degli idioti, significa rinunciare a difendersi, altro che uomo giudizioso e posato: un coglione, ecco cosa sei sempre stato! E la tua Marianna lo era più di te: onesta da fare schifo! Lei voleva sposarsi presto, avere dei figli. Ma mi ci vedete sposato a poco più di venticinque anni, padre di famiglia, giudizioso, posato. IO?” rise di nuovo.
“Ma per carità, ci parlai qualche volta, ma non era roba per me, quella. Non le feci mai la corte, anche perché” urlò ancora più forte, rivolto al cielo, “NON AVEVA OCCHI CHE PER TE!” si fermò, quasi a cercare tra i ricordi “Però la sera in cui morì, anche se non c’entravo nulla, appena la voce si diffuse in città mi sentii in pericolo. Ero già in politica, come ben ricordate tutti, ma ero ancora una pedina come tanti altri e non potevo certo rischiare di essere additato come «uno della compagnia», che in quel momento valeva a dire «uno dei sospettati»: mi avrebbero scaricato seduta stante! Allora ebbi l’idea vincente: corsi a casa a recuperare la Polaroid e andai a casa di Carlo. Mi ricordavo del carico di patate che quella notte avrebbero dovuto portare via, Entrai nella rimessa e staccai un paio di fili dentro il cofano del furgone. Poi mi appostai con la Polaroid in mano e – BINGO! – scattai le foto di Carlo che caricava le patate in auto. Non potevo certo sapere che la povera Marianna fosse stata trovata proprio dentro uno di quei sacchi, ma mi pareva già degno di sospetto il comportamento di uno che in piena notte carica dei sacchi nel bagagliaio della propria auto, no? Non fu difficile far arrivare anonimamente ai carabinieri le mie foto quella notte stessa e dopo che Carlo e suo padre furono partiti per il mercato, tornai nella rimessa a rimettere a posto il furgone. Il mattino dopo i carabinieri risolsero il caso, così, di punto in bianco, e io ero di nuovo libero di pensare alla mia carriera politica! Mi dispiaceva un po’ aver messo nei guai qualcun altro, ma… mors tua vita mea, si dice, no? Vedi, Giovanni, che non sono poi tanto ignorante? Ho perfino imparato un po’ di latino, per fare più bella figura!”
Mentre parlava, ormai infervorato in quella confessione spontanea, si avvicinò all’auto e sbirciò dal finestrino, constatando con sollievo che le chiavi fossero ancora infilate nel quadro. Poi proseguì: “Da buon politico ero anche andato dai genitori di Carlo a esprimere tutto il mio rammarico per la triste vicenda. Il padre non accennò minimamente ai propri sospetti, ma parlandoci intuii comunque che aveva in mente qualcosa. Lo seguii discretamente nei giorni successivi e lo vidi prendere contatti con il giovane avvocato qui presente. Temetti ancora una volta di essere tirato in ballo, ma quel brutto incidente mise fine a tutta la storia.”
Si fermò, fissandoli uno ad uno negli occhi “Sì, lo so cosa state pensando tutti: un incidente quanto mai provvidenziale. Beh, vi posso assicurare che non c’entro nulla nemmeno lì. Non nego che mi abbia fatto comodo, eh, come si diceva prima? Ah, sì: mors tua… Del resto, un colpevole l’avevano già, l’opinione pubblica era soddisfatta e infatti, alle elezioni dell’anno successivo fui eletto sindaco con maggioranza bulgara, promettendo che niente del genere sarebbe più accaduto, con me a vigilare sulla sicurezza dei miei amatissimi concittadini!”
Fabrizio ancora rideva mentre nel cielo già chiaro, improvvisamente il sole sorse a illuminare i volti lividi dei cinque compagni di sventura.
Fabrizio riprese con un tono ancora più sarcastico: “Oh, mi raccomando, ragazzi: nemmeno una parola su questa storia, eh. Tanto, ormai, sono passati trent’anni, il colpevole – anche se non era lui – ha pagato, il reato è prescritto e io ho l’immunità parlamentare. Vero, avvocato, che non conviene mettersi a fare denunce, dopo tutto questo tempo?”
Li squadrò deciso: “Seriamente, vi avviso: se viene fuori anche una sola parola, giuro che vi distruggo tutti!” Poi si voltò verso la macchina e aggiunse: “Beh, pare che oggi tocchi a voi tornare a casa a piedi, ma sarà facile” aggiunse con un’ulteriore risata, di scherno “è tutta discesa! Dunque, buona passeggiata, falliti!” e così dicendo, improvvisamente spalancò la portiera e fece per salire in auto, ma in quel momento, una voce sconosciuta alle loro spalle li gelò: “Da qui non se ne va nessuno, allontanati dall’auto, prima che vi prenda tutti a fucilate!”. Si voltarono, allarmati mentre un uomo spuntava da dietro il capannone imbracciando un grosso fucile da caccia. “Remo, cosa ci fai qui?”, esclamò stupito Giovanni, evidentemente l’unico a riconoscerlo.
“Stavo tenendo d’occhio il posto da giorni”, riprese l’uomo, “il capannone è mio, ed è mio anche il terreno e anche se al momento non li uso, ogni tanto però vengo a controllare e ultimamente avevo notato molte tracce di pneumatici sull’erba. Pensavo alle solite coppiette, ma poi ho scoperto le corde e le taniche di benzina dentro il capannone e allora ho deciso di stare un po’ di guardia, finché ho visto arrivare… mio fratello che allestiva questo bel teatrino. Non ho dovuto aspettare troppo, per ritrovarvi tutti qui e credo che adesso ne approfitterò per chiudere una volta per sempre questa storia. Tornate nel capannone, tutti e senza fiatare: Carlo ha fatto finta di bruciarvi e io invece lo farò sul serio, così non ci saranno più dubbi su di lui!”
Giovanni spalancò gli occhi: “Che stupido sono stato! Ora capisco perché allora mi liquidasti così in fretta!”
“Bravo il nostro avvocato! Ci sei arrivato, finalmente” lo rintuzzò Remo, “ma non ti servirà a molto, visto che non potrai raccontarlo a nessuno. Morirete tutti e la colpa ricadrà su quello stupido di mio fratello, che ha ben pensato di montare questa assurda messa in scena. Quando si vedranno le fiamme – perché questa volta si vedranno, vi assicuro! – i carabinieri correranno qui e troveranno la lettera di Carlo. Penseranno che il teatrino gli sia sfuggito di mano e che alla fine vi abbia ammazzati senza volerlo. Lo troveranno e gli faranno finire i suoi giorni in galera, come doveva essere da subito!”
“Ma dunque…” disse Fabrizio con un filo di voce “Sì, è ovvio”, lo interruppe Remo, “sono stato io. Marianna mi era piaciuta fin dal primo giorno che Carlo la fece venire a casa. Le feci una corte serratissima, sempre di nascosto, ma di me non ne ha mai voluto sapere. Però lei non voleva rischiare di metterci uno contro l’altro – l’anima bella! – quindi, non l’ha mai raccontato a nessuno.
E poi, sì, ho anche causato l’incidente in cui morirono i miei: dissi loro che non me la sentivo di vedere Carlo in prigione, ma li aspettai in un bar lì vicino per farmi raccontare qualcosa. Versai mezza boccetta di un forte tranquillante nella tazzina del caffè di mio padre: era da troppi giorni che stava facendo domande in giro, lui era convinto che Carlo non c’entrasse nulla e scava scava qualcosa sarebbe di certo riuscito a trovare. Lo conoscevo troppo bene, era cocciuto e determinato, prima o poi sarebbe arrivato alla verità, anche se nessuno sapeva della mia cotta per Marianna.
Così ho preso due piccioni con una fava: nessuno mi poteva più incolpare e con Carlo fuori dai giochi ho praticamente ereditato tutto. Peccato solo per Marianna, mi piaceva molto, sarebbe stata una buona moglie. Le avevo dato appuntamento quella sera per un ultimo disperato tentativo, ma è stata irremovibile. Quando ha fatto per andarsene non ci ho visto più, l’ho presa per il collo e ho cominciato a stringere. Volevo spaventarla, forse, non lo so più, ma quando mi sono reso conto che era morta ho pensato subito di farla sparire, così ho preso dal bagagliaio dell’auto un sacco – ne avevo sempre qualcuno con me – e ce l’ho messa dentro. Poi però ho sentito che arrivava gente e l’ho nascosta lì alla bell’e meglio nel boschetto, pensando di tornare poi durante la notte a finire il lavoro, ma l’hanno trovata subito: ho sentito le urla mentre stavo salendo in auto. Allora sono tornato a casa cercando di non farmi notare da nessuno. Ci ho messo un bel po’ a fare il giro largo e ho parcheggiato ben lontano – per fortuna non lasciavo mai l’auto nel cortile di casa. Intanto però la voce doveva essersi sparsa, così, mentre mi muovevo con cautela attorno a casa per cercare di entrare da una finestra, per poco non mi facevo beccare da te, Fabrizio! Sulle prime non capivo cosa ci facessi lì tra i cespugli, ma poi ho visto la Polaroid e ti ho lasciato fare. Bel depistaggio, bravo. Si vede che sei sempre stato uno che nella merda ci sguazza bene! Nessuno ha mai pensato a me, anche perché quel giorno avevo lavorato tantissimo e tutti credevano che stessi già dormendo. In genere era Carlo che si occupava dei carichi e quindi a nessuno è venuto in mente di venirmi a chiamare per dare una mano. Così, quando finalmente ve siete andati tutti, sono rientrato di soppiatto nella mia stanza e festa finita! E ora entrate, forza, non fatemelo ripetere!””
“Fermo! Butti quell’arma”, si sentì urlare, mentre quattro carabinieri con le pistole spianate comparvero improvvisamente di fronte al gruppo. Remo rimase spiazzato per un attimo, poi lasciò cadere il fucile, alzò le mani e indietreggiò lentamente.
“La chiamata anonima diceva il vero, a quanto pare: ci siamo appostati qui vicino e abbiamo sentito tutto. Ora non faccia resistenza e ci segua in caserma. Dovrà chiarire parecchie cose!”
Ma Remo non aveva intenzione di chiarire alcunché: si voltò verso lo sportello aperto dell’auto, si lanciò sul sedile, mise in moto e partì sgommando.
Non vide Carlo che lo fissava, nascosto nella penombra del bosco. Lanciò a tutta velocità l’auto lungo la strada ripida e solo al primo tornante si accorse che il pedale del freno affondava a vuoto.
Ma era troppo tardi.