Ah, Paris!

Jeanne uscì dal portone del palazzo e gettò uno sguardo soddisfatto attorno a se’.
Certo, Parigi era tutta bella, ma quella zona era un vero bijou: poco traffico, molte zone verdi, palazzi signorili e… il sorriso le si spense sulle labbra, mentre lo sguardo si posava su un punto dall’altro lato della strada dove, in una nicchia tra due bei palazzi notò ancora quel mucchio di stracci abbandonato. Aveva già scritto una mail piuttosto seccata alla segreteria dell’arrondissement, il giorno precedente, spiegando che un così bel quartiere non poteva certo essere lasciato all’incuria e all’inciviltà e augurandosi che si prendessero subito provvedimenti in merito, ma evidentemente la pulizia di un angolo tanto bello e signorile della città non era tra le priorità dell’amministrazione. 

Le sarebbe toccato sollecitare, magari con una telefonata. Già si immaginava il penoso colloquio con la segretaria – quell’inutile ochetta con più tette che neuroni – ma quel che era necessario andava fatto. Decise che avrebbe chiamato non appena arrivata in ufficio e rinfrancata all’idea di dare il proprio nobile contributo alla civiltà di quel posto benedetto da Dio, girò i tacchi e si avviò decisa verso la metro

Al telefono, la segretaria le stava spiegando con quel suo tono petulante che l’arrondissement era grande e non si poteva certo pretendere che ogni problema venisse risolto seduta stante, ma Jeanne non la lasciò finire la frase e le disse che avrebbe parlato direttamente con l’amministratore Chartroux, se necessario, pur di far sparire immediatamente quello scempio. 
La segretaria ammutolì, deglutì rumorosamente e poi, con un profondo sospiro, si scusò e disse che avrebbe mandato il giorno stesso qualcuno a controllare la situazione.

Soddisfatta per l’esito della chiamata, Jeanne si dedicò al suo lavoro e la giornata trascorse in fretta, nonostante la fremente eccitazione al pensiero che finalmente quell’angolo di fronte a casa sua sarebbe tornato pulito e presentabile, come era giusto che fosse. 

Scese dalla metro e si affrettò verso casa per vedere il risultato della sua paziente ma laboriosa attesa. Girò l’angolo e per la sorpresa fece quasi cadere la borsetta a terra: quello schifo era ancora lì! Peggio: lo avevano malamente spostato, forse sperando di nasconderlo. Furente, decise che avrebbe fatto da se’, spedendo poi un eloquente resoconto fotografico all’amministratore Chartroux. Attraversò la strada e puntò decisa verso quell’orrore. Stava ancora cercando i guanti “usa e getta” che portava sempre nella borsetta, quando alzando lo sguardo si accorse che quel mucchio informe di stracci era… una persona!

Un ragazzino, per la precisione, che non doveva avere più di 12-13 anni, sporco e maleodorante, rannicchiato in quel cappotto troppo grande per lui. Jeanne restò impietrita a fissarlo per qualche secondo, finché anche lui si accorse della sua presenza e si girò a guardarla. Dopo averla studiata per un po’, tese la mano e le chiese a mezza voce se avesse degli spiccioli, o magari una sigaretta. “Ma sentilo, una sigaretta! Sei pazzo?” – replicò lei con la voce resa stridula dalla rabbia – “Tu non dovresti fumare, alla tua età!” indietreggiava mentre parlava, con gli occhi sbarrati, come se avesse visto il demonio in persona. Estrasse il telefono e compose il numero della gendarmerie mentre il ragazzo, intuita la mala parata, si alzava e scappava via, sparendo subito dietro l’angolo del palazzo. 

Jeanne rimase lì ancora per qualche secondo e poi riattraversò di corsa la strada, infilandosi ansimante nel portone. A casa si fece un lungo bagno caldo, per togliersi dalle narici quel terribile odore, cenò e si mise a letto, pensierosa.
Dormì poco e male e al mattino successivo uscì senza nemmeno fare colazione, ma appena fuori dal portone si calmò immediatamente: dall’altro lato della strada, la nicchia tra i due palazzi era vuota, quel mendicante doveva aver capito l’antifona ed era andato a disturbare da un’altra parte. “Meglio così, anche se…”
Rimase pensierosa per un attimo, poi scacciò ogni dubbio, e si avviò di buon passo.

Quando però nel pomeriggio rientrò a casa le sembrò di ripiombare in un incubo: il ragazzino puzzolente era di nuovo là! Decise di affrontare la situazione di petto: attraversò la strada, respirando a fondo per mantenere la calma, e gli si parò davanti con lo sguardo furente: “Cosa ci fa un ragazzino come te in mezzo alla strada? Non ce li hai dei genitori?”
“Ah, sei ancora tu?”, disse lui, guardandola con aria di sfida, “mi hai portato delle sigarette?”
“No, non ti ho portato nessuna sigaretta, rispondi alla mia domanda!”, si infuriò Jeanne.  
Di fronte a tanta rabbia, il ragazzo sembrò tornare in se’, si appoggiò all’indietro e iniziò a parlare, con l’aria di chi quella stessa storia l’aveva già raccontata altre mille volte: “L’ultima volta che lo vidi, papà si stava imbarcando su una di quelle grosse navi che stanno via mesi e mesi. Poi mamma si è ammalata ed è morta. Ad un certo punto papà ha smesso di chiamare e soldi non ne sono più arrivati. Lì a Marsiglia non potevo più starci, anche perché avevo paura che prima o poi avrebbero capito che vivevo da solo e sarebbero venuti a prendermi per portarmi in un orfanotrofio, così ho messo in una borsa ciò che poteva essermi utile e sono fuggito.”

Jeanne si sentiva come se stesse osservando la scena dall’esterno e improvvisamente si sentì dire: “Credo di poterti aiutare. Seguimi”.

Lui tentennò, immaginando di trovare la gendarmerie appostata dietro qualche angolo, ma alla fine si fece convincere. Jeanne vinse il ribrezzo che quell’odore le causava e se lo portò in casa. Lo fece restare nell’ingresso, mentre si toglieva il soprabito e quando tornò lo trovò seduto a terra. Pensò per un attimo al povero tappeto – un autentico Gabeh afgano – a contatto con quei vestiti luridi, ma si riscosse subito: “Ti va di darti una ripulita? Ti preparo un bel bagno caldo e ti potrai mettere dei vestiti puliti, così questi li buttiamo via”. Lui la guardò sospettoso: “Il cappotto non lo toccare, questo resta con me!”
“Va bene”, rispose lei, conciliante “ma fammelo almeno lavare”.
“Vedremo”, disse. Stava iniziando a toglierlo quando Jeanne intravide un luccichio, sotto i vestiti sporchi e subito esclamò: “Ma come? Sei qui da cinque minuti e già stai tentando di rubarmi qualcosa? Fammi vedere subito cos’hai preso!”
Lui scattò in piedi e si richiuse a riccio nel cappotto: “Non ti ho rubato niente! Non c’è niente che mi interessi, qui!”
“E allora cos’è che luccica, lì sotto?”, urlò lei.
Lui si bloccò, una mano già sulla maniglia della porta. Sospirò, fece un passo indietro, infilò una mano sotto il cappotto ed estrasse di malavoglia un piccolo binocolo di ottone. Sembrava un oggetto da marinaio: “me l’aveva regalato papà, dopo uno dei suoi viaggi”, confermò lui, “Diceva che la felicità arriva da lontano e devi poterla vedere per tempo, se vuoi prenderla al volo”.

Jeanne si calmò di colpo, era quasi commossa. Gli fece strada verso il bagno e lo lasciò lì, mentre andava a cercare dei vestiti adatti.

Quello che uscì dal bagno mezz’ora dopo, pulito e profumato, avvolto nell’accappatoio morbido pareva un altro ragazzo. Jeanne gli aveva preparato dei vestiti puliti da indossare subito e una sacca con dei ricambi: “questi ti dovrebbero durare per un po’ ” disse. Lui la guardò con lo stesso sguardo sospettoso di prima: “Perché lo fai? Da dove viene questa roba? Era dei tuoi figli?”
Jeanne rise: “No, io non ho figli, non sono nemmeno sposata. Ma collaboro da tempo con le Dame di carità, le conosci?” Lui fece di sì con la testa: ogni tanto era andato a mangiare da loro, vicino a Nôtre Dame. “Giusto l’altro ieri ho ricevuto una donazione di abiti usati da una famiglia qui vicino e ricordavo ci fosse qualcosa della tua taglia. Vuoi mangiare qualcosa? Non ti manca un pasto caldo?”
Gli occhi del ragazzo si addolcirono per un attimo, mentre spiegava quanto gli mancasse la zuppa di cipolle di sua madre. Jeanne lo guardò dolcemente: “la mia zuppa di cipolle, ti assicuro, è la più buona di Parigi e mi hai ricordato che è da un sacco di tempo che non la cucino!”

Il ragazzo si guardava intorno nervosamente e alla fine accettò un panino, ma più che affamato pareva impaziente di andarsene.
“Non mi hai ancora detto come ti chiami”, disse lei
“Louis”, rispose il ragazzo “e tu?”
“Io sono Jeanne. Sei sicuro di non voler dormire qui?”
“No, grazie. Non mi sento a mio agio, sarà per un’altra volta”, rispose. Raccolse la sacca, il prezioso binocolo, il vecchio cappotto e infilò la porta mormorando un “grazie”, prima di sparire nel buio del pianerottolo.

La mattina dopo, uscendo dal portone, Jeanne non vide Louis al solito posto. Mentre pensierosa camminava verso la metro decise che avrebbe chiesto un permesso per uscire un po’ prima e sbrigare alcune faccende importanti. 

Quando rientrò lo trovò che la aspettava vicino al portone. “Hai tempo?”, le chiese. Lei aveva già risolto tutte le sue faccende e poteva certamente dedicargli qualche minuto. 

“Ieri mi hai fatto entrare a casa tua, oggi sarai tu a venire a casa mia!”, e così dicendo la guidò attraverso una serie di vicoli dove lei non aveva mai osato addentrarsi, fino ad uno spazio chiuso, seminascosto tra le pareti posteriori cieche di due alti palazzi. Un posto buio e maleodorante, dove decine di derelitti sedevano a terra o su giacigli improvvisati. Qua e là ardevano piccoli fuochi su cui bollivano bricchi luridi o si asciugavano vestiti umidi. Nessuno parlava e pochi alzarono lo sguardo verso la nuova arrivata. 

Jeanne era sconvolta: non avrebbe mai immaginato che a pochi passi dalla sua lussuosa casa potesse esserci un simile inferno in terra!

Louis notò il suo disagio e la guidò fuori, scusandosi. “Non ti scusare”, disse lei “sono io che dovrei farmi perdonare, per non essermi mai accorta prima di un fatto tanto grave!”

Lui la riaccompagnò fino alla strada principale, prima di dileguarsi nuovamente tra i vicoli. Jeanne sapeva già cosa doveva fare: estrasse il cellulare dalla borsa ed iniziò a fare una serie di lunghe telefonate, mentre non riusciva a smettere di pensare a quanto fosse veramente intollerabile che una simile marea di disperati vivesse in quelle condizioni inumane proprio lì, nell’indifferenza di tutti!
Le telefonate si protrassero fino a tarda sera e Jeanne si coricò molto più tardi del solito, stanca ma soddisfatta del proprio impegno verso il prossimo. 

Il mattino successivo uscì dal portone di casa con un’aria veramente gioiosa e soddisfatta. Pensava al piccolo Louis, che aveva tutto il diritto di veder arrivare la felicità, con quel suo bel binocolo da marinaio. Certo, non avrebbe potuto farlo, finché fosse rimasto in quel vicolo fetido, ma era certa che prima o poi sarebbe successo e forse quel giorno si sarebbe guardato indietro e si sarebbe certamente ricordato con gratitudine di lei. 
Nel pomeriggio aveva appuntamento con il carpentiere per le misure di una nuova porta blindata – un acquisto che rinviava ormai da troppo tempo – e più tardi anche con l’amministratore del condominio: era da così tanto che lui la tempestava di telefonate e messaggi perché desse il proprio assenso – ultima rimasta tra i condomini – all’assunzione di un portinaio per l’ingresso del palazzo, incosciente che era stata a non aver accettato prima!

Il rombo di un motore la distolse dai suoi pensieri: davanti ai suoi occhi sfrecciò l’ennesima camionetta della gendarmerie che andava ad aggiungersi alle altre, arrivate già alle prime luci del giorno e che lentamente si andavano riempiendo con il loro carico di disperati. 

Si ripromise di chiamare dall’ufficio l’amministratore dell’arrondissement: doveva assolutamente complimentarsi con lui per l’ottimo lavoro e, en passant, anche verificare discretamente che la stronzetta petulante fosse stata effettivamente licenziata come meritava. 
Le era venuta una gran voglia di zuppa di cipolle, la sua zuppa di cipolle, mica quella brodaglia insipida che ti propinano a Marsiglia.
Si appuntò mentalmente di fermarsi a comperare il necessario, sulla via del ritorno, e sorridente si avviò verso la metro.

Sole e tempesta

Il vento tiepido della sera portava già con sé le prime avvisaglie del temporale in arrivo, mentre Marco entrava nel locale.
Appoggiato al bancone consumato da generazioni di avventori si guardava distrattamente intorno, in attesa del suo ormai solito taj[1] di bianco: al tavolo accanto all’ingresso si stava consumando un’incandescente sfida a morra, con il vino che contribuiva a far crescere la temperatura dello scontro. Ad un altro tavolo erano invece in corso i consueti e più pacati ‘quattro raggi’ a briscola mentre i pochi altri frequentatori sedevano silenziosi ai propri soliti posti.

Arrivò il vino, Marco mise sul banco i soldi e stava per bere il primo sorso, quando una voce alle sue spalle lo gelò: “bevi così, da solo e senza nemmeno offrire?”.
Gino sorrideva sornione, seduto accanto a lui. Marco aggiunse con un sospiro le monete per il secondo calice. Sapeva che suo padre non era lì solo per bere, lo conosceva fin troppo bene: “çe fastu ca?[2] domandò con diffidente curiosità, senza nemmeno voltarsi a guardarlo.

Gino si prese tutto il tempo necessario, accennò un brindisi – al quale Marco rispose con un sorriso tirato – e bevve un lungo sorso. Un gesto lento e paziente, in netto contrasto con la furia del temporale che si stava preparando. “O vevi voie di fevelâ cun te[3], rispose alla fine.

Marco non rispose, continuava a guardare le montagne, le sue care montagne, che lentamente sparivano, inghiottite dalle nuvole. Qualche cupo brontolio in lontananza prometteva una notte più fresca, forse un’ora di riposo in più. Il calice freddo stretto in mano anticipava di qualche minuto quell’agognato ristoro.

Visto l’ostinato silenzio del figlio fu Gino a riprendere il discorso: “Hai coperto la vigna? Vjôt c’al fasarà tampieste[4].
“Papà, so fare il mio lavoro. Mi hai insegnato fin troppo bene” aspettava la stoccata, che infatti arrivò, anticipando di un secondo il primo tuono: “Non ti ho mica insegnato solo a lavorare, ma mi pare che tutto il resto te lo sei già dimenticato”.
Intuiva dove Gino volesse andare a parare. Sapeva bene che cosa non andasse nella sua vita: friulano fino al midollo, gravato dalla condanna dell’orgoglio perenne, del lavoro da finire ad ogni costo, del dovere prima di tutto e del piacere, forse, alla fine. Produceva un buon vino che vendeva a tutti e non assaggiava mai, viveva da solo in una bella casa di pietra, restaurata pazientemente in anni di sacrifici e l’unico piacere che si concedeva era quel calice di vino fresco, la sera, nell’osteria del paese. Aveva rinunciato a tutto, anche alle camminate in montagna, alle cime tanto amate, per quella vigna e quella casa, ma era orgoglioso delle sue scelte e dei suoi successi.
“Mi piace la mia vita, non mi manca niente!”, rispose stizzito.

Fuori il vento aumentava, portando con sé le prime gocce di pioggia. Gli ultimi numeri furono battuti sul tavolo, tra grida, risate e colorite bestemmie e i giocatori si affrettarono verso casa. Anche la briscola era quasi alla fine.

“E Caterina? Perché non la chiami mai?”

Eccola, la vera bastonata. Gino aveva sempre avuto la lingua affilata. Non che non avesse ragione – l’aveva quasi sempre, del resto – ma questo era proprio un colpo basso.
“Ho troppo da fare. E poi, perché non mi chiama lei? Si vede che non è interessata, ti pare?”
Il vino gli si stava riscaldando in mano e quella chiacchierata stava durando decisamente troppo, per i suoi gusti. Marco vuotò deciso il calice e si alzò per andarsene.

“Non ti ho insegnato a scappare davanti alle difficoltà! Dove stai andando?”
Marco tentennò: “Vado a dormire, domani ho da fare”.
“Hai sempre da fare. Sempre! È dura trovare sempre nuove scuse per non pensare, eh?”, Gino esercitava con dovizia il proprio sarcasmo. Conosceva bene i punti deboli del figlio e lo pungolava sapientemente.
La pioggia aumentava di intensità, lampi e tuoni si facevano più frequenti. Gino continuò: “Ma poi, dove vuoi andare, adesso? Non vedi come piove? Paje un altri taj e sentiti ju![5]
Rassegnato, Marco chiamò altri due calici e si sedette con un lungo sospiro.

Fuori pioveva sempre più violentemente. Lo scoppio dell’ennesimo tuono coprì il rumore del bicchiere che andava in frantumi a terra. Marco, gli occhi spalancati, fissava la porta di ingresso da dove, grondante di pioggia, Caterina ricambiava fieramente il suo sguardo.

La tempesta. Perfetta.

Si voltò furente, ma Gino non era più lì. Non c’era mai stato, in realtà: un infarto se l’era portato via cinque anni prima. Marco ricordava ancora chiaramente quella mattina. Era passato a salutarlo prima di andare a lavorare in vigna e Gino gli aveva detto: “Viôt di no piarditi. Ricuarditi simpri che tu ses le to vigne, e a le vigne i servis dût, soreli e tampieste, par fa’ un bon vin[6]
L’ambulanza era arrivata troppo tardi e quando Marco ripassò da lì, a ora di pranzo, Gino era già ‘andato avanti’, lasciandogli quelle oscure parole come unico commiato.

Caterina si avvicinò al bancone, evitò i cocci a terra, prese i due calici rimasti intatti davanti allo sgabello vuoto e ne porse uno a Marco, ancora assorto nei suoi tristi ricordi.
“Continui a pagare da bere ai tuoi fantasmi? Perché non torni tra i vivi? Mi manchi, lo sai?”

Mi manchi’: otto lettere, semplici, immediate, taglienti come rasoi, da poterci fare a pezzi anni di certezze granitiche come fossero burro.

Marco non riuscì a replicare: il fulmine successivo fece andare via la corrente. Si ritrovarono improvvisamente al buio, seduti uno di fronte all’altra, i calici in mano. Il tintinnio lieve di un brindisi appena accennato sovrastò magicamente per un attimo ogni altro rumore. Bevvero lentamente, gustando il vino ancora fresco.
Fuori, intanto, aveva iniziato a grandinare. “Diavolo di un Gino! Le sai sempre tutte, tu”, pensò Marco sorridendo nel buio, mentre sentiva gli occhi di Caterina fissi nei suoi.
Cercò la sua mano e la trovò subito, già in attesa nell’oscurità, già sicura del contatto imminente.
Parlarono, nel buio, a bassa voce. Mezz’ora non bastò a raccontarsi tutto di quel tempo perduto, ma la luce non ebbe ugualmente riguardo della loro intimità ritrovata e tornò a ferire gli occhi, interrompendo il flusso turbinante dei loro pensieri.

La grandine aveva intanto lasciato il posto ad una pioggia sottile, il vento calava, il temporale si allontanava piano. Era ora di andare a casa, a quella che forse, da lì in poi, sarebbe finalmente diventata una vera casa e non solo un posto in cui dormire.
Uscirono nell’aria fresca, le mani che si sfioravano appena, i pensieri avvinghiati come edere.
Marco gettò un ultimo sguardo dentro l’osteria: Gino, seduto al suo solito posto, sorrideva, una mano sollevata in segno di saluto. Gli sorrise di rimando, sussurrando un “grazie”.
Era un addio, lo capiva da sé, mentre sul suo viso le lacrime si mischiavano alle ormai rade gocce di pioggia.

Si sentì improvvisamente svuotato. Era quasi dispiaciuto che la sua personale tempesta stesse finendo così in fretta e ripensò a Gino, alle sue ultime parole: erano anni che ci rimuginava sopra ed ora, finalmente, ne coglieva il senso profondo.
Fece per parlare, ma Caterina lo anticipò: “Cosa fai domani? Ci sarà di sicuro bel tempo, vieni a fare una cima con me? È così tanto che non camminiamo assieme”.
Sorrise. La vigna avrebbe fatto a meno di lui, per un giorno.
Il primo di molti.


[1] In friulano, il taj è il classico bicchiere da vino

[2]Cosa fai tu qui?

[3]Avevo voglia di parlare con te

[4]Guarda che grandinerà

[5]Paga un altro calice e siediti!

[6]Attento a non perderti. Ricordati sempre che sei tu la tua vigna, e alla vigna servono sia sole che grandine, per fare un buon vino

Vista mare

Enrico arrivò alla base della parete e iniziò a scaricare l’attrezzatura dallo zaino: due tiri di corda, cordino di sicurezza, imbrago, scarpette, moschettoni, rinvii, chiodi e martellina, il sacchetto con la magnesite. 

Guardò in alto, alla ricerca del primo chiodo: era ancora là, a una decina di metri da terra, poco visibile accanto ad un grosso appiglio sporgente. L’aveva piazzato lì apposta perché non lo si vedesse troppo: era una via mai tentata da nessuno e Enrico voleva a tutti i costi essere il primo ad aprirla. Tutti i grandi alpinisti che aveva conosciuto avevano almeno una via che portava il loro nome e lui non voleva essere da meno. Era da settimane che ci lavorava in solitaria, tentando e ritentando su quella parete che pareva facile, all’inizio, ma che avanzando presentava non poche difficoltà: la roccia a tratti friabile, alcuni tratti quasi lisci, uno spuntone che andava assolutamente aggirato da sopra, visto che sotto era completamente marcio e affrontarlo in pendenza negativa equivaleva praticamente a suicidarsi. Fino al largo terrazzone a circa metà parete ci era già arrivato una volta, qualche giorno prima, perdendo un paio di volte la presa e volando appeso al chiodo più vicino, per fortuna senza gravi conseguenze, però quel giorno voleva assolutamente arrivare in cima.

Quella vetta lo chiamava da tempo, da quando lui e Maurizio arrampicavano in coppia sulle pareti lì intorno e lui guardava da lontano quello spuntone solitario che pareva non avere padroni né vie di accesso praticabili. Enrico aveva girato in lungo e in largo tutta la zona senza venirne a capo, ma più impossibile gli sembrava trovare un attacco accessibile, più quella cima lo stregava. 
Era diventata una sfida personale, ormai: una di quelle ossessioni pericolose che spesso ti fanno perdere la ragione e dimenticare ogni forma di prudenza.

Con Maurizio ci aveva litigato due mesi prima, proprio a causa di quella sua ossessione: l’amico avrebbe voluto affrontare altre pareti, mentre Enrico continuava ad orbitare lì intorno, come una falena con la sua candela.
Maurizio aveva intuito qualcosa, probabilmente. Forse voleva addirittura allontanarlo da lì per soffiargli la “prima” sotto il naso, ma Enrico non era tipo da farsi fregare così facilmente e ad un certo punto l’aveva mandato a quel paese, rifiutando messaggi e chiamate e fingendo addirittura di non essere in casa quando l’amico lo veniva a cercare.

Ed ora era lì, ai piedi della sua parete, ignota alla maggior parte degli scalatori della zona, pronto per l’impresa che lo avrebbe certamente consacrato sulle riviste alpinistiche di tutto il paese.

Affondò le mani nella magnesite e afferrò con presa sicura i primi appigli. Fino al primo chiodo era storia facile: l’aveva messo lì perché poteva tranquillamente arrivarci in libera e una volta arrivato lì il grosso appiglio sporgente gli forniva una base sicura per fermarsi a sistemare il cordino di sicurezza e i fermi di autoassicurazione per poter proseguire sulla corda che aveva in spalla. Con gesti automatici sistemò il necessario e ripartì verso il secondo chiodo che da lì si vedeva appena. Avanzava quasi senza fatica, sugli appigli che aveva ormai fissato in mente nelle decine di ascese fatte nelle ultime settimane e assicurò la corda anche al secondo chiodo. La base della parete era ormai a più di venti metri sotto i suoi piedi ma Enrico non aveva certo paura delle altezze, piuttosto lo intimoriva un po’ il traverso pressoché liscio che avrebbe dovuto affrontare per arrivare al terzo chiodo: qualunque imprudenza l’avrebbe fatto pendolare su oltre dieci metri di corda e lì sì che c’era da farsi male sul serio!

Cercò di non pensarci, rilassò alternativamente le braccia prima di ripartire e si diede un piccolo slancio con le gambe per andare a prendere con la mano destra l’ultimo appiglio evidente.

Da lì in poi era come camminare su una lama di rasoio ma la pratica delle ultime settimane lo portò con relativa facilità al terzo chiodo.

Da lì al terrazzone roccioso di chiodi ne aveva potuti mettere altri, molto più vicini, e il rischio di farsi male era molto più basso, come aveva già potuto sperimentare. Adesso arrivare alla prima sosta era quasi un gioco da ragazzi ma da lì in poi era ancora tutto da inventare.

Seduto sulla grande sporgenza rocciosa osservava la parete che lo sovrastava, cercando di individuare un percorso sicuro ma da lì poteva vedere ben poco e decise di essersi riposato abbastanza. Fissò un primo chiodo e sistemò in posizione i fermi. Non era certo il caso di rischiare salendo in libera da lì: se qualcuno fosse stato abbastanza bravo da arrivare fino a quel punto non si sarebbe fermato certo per un chiodo mancante.

Gli appigli erano evidenti e solidi e anche superare lo spuntone mezzo marcio fu in fondo abbastanza facile. La vetta era ormai a pochi metri che Enrico superò tutti d’un fiato, sedendosi poi soddisfatto su un grosso sasso e fotografando tutto intorno, se’ compreso.

Decise che la sera stessa avrebbe trascritto tutto il percorso con le relative difficoltà e si apprestò a scendere di nuovo fino al terrazzone.

Recuperò il primo tiro di corda e se lo mise in spalla: era a dir poco euforico per essere riuscito nella sua personalissima impresa e senza nemmeno riposare si assicurò di nuovo alla prima corda per scendere fino all’attacco e concludere con una bella birra ghiacciata quella giornata che gli avrebbe portato gloria e onori, alla faccia di quelli che gli volevano male!

Fu durante il traverso più pericoloso che i suoi peggiori incubi presero forma: perse la presa e volò, imperniato su quel chiodo troppo lontano, come aveva temuto in tutti quei giorni di tentativi. Per quanto avesse tentato di girarsi in volo, finì per sbattere pesantemente contro la parete con la spalla destra. Rimase intontito dal dolore per qualche secondo, constatò con un certo sollievo che il chiodo e la corda avevano retto l’urto e cercò immediatamente di togliersi da quella posizione ma il braccio destro penzolava dolorante lungo il fianco e non voleva saperne di muoversi. Senza troppa convinzione sperò non fosse rotto e cercò di usare il sinistro per girarsi ma un dolore lancinante gli tagliò il fiato: doveva essersi rotto anche qualche costola. L’imbrago cominciava a stringere le gambe che presto avrebbero perso sensibilità. Era fregato, anzi: si era fregato da solo, stupido che era stato! Era talmente preso dalla sua ossessione da dimenticarsi le più elementari regole di prudenza: nessuno sapeva che fosse lì, nessuno sarebbe venuto a cercarlo.
Nella tasca destra dei pantaloni il telefono vibrava ma il braccio destro, evidentemente rotto, continuava a non volersi muovere. Tentò di incrociare il sinistro davanti al petto per per raggiungere la tasca, ma il dolore alle costole gli attraversò il torace come una lama.
Il respiro gli si fece affannoso e cominciò a non sentire più i piedi. Appeso all’imbrago, con la schiena alla parete, per la prima volta da quando aveva iniziato quella follia fu costretto a guardarsi intorno: vide la folta distesa di alberi che terminavano a ridosso della strada e la ragnatela di sentieri che portavano alle cime vicine. Notò con sorpresa i colori diversi delle pareti circostanti e si rese conto che in tutto quel tempo si era preoccupato solo di dove metteva mani e piedi, vedendo solo la roccia davanti al proprio viso, evitando accuratamente di guardarsi intorno, concentrato unicamente sui propri obiettivi agonistici, perdendosi tutta quella bellezza.

Ormai era preda delle allucinazioni. Lo sguardo gli cadde sul parcheggio dove, accanto alla propria gli parve vi fosse un’altra auto: un’auto rossa che pareva proprio quella di Maurizio, ma era impossibile, Maurizio poteva essere ovunque, tranne che lì e lui l’aveva trattato così male da non meritarsi certamente il suo aiuto.
Sentiva uno strano ronzio nelle orecchie, lasciò vagare lo sguardo nel vuoto di fronte a se’ e realizzò che quella striscia blu che vedeva all’orizzonte doveva essere l’Adriatico. Il ronzio si fece più forte e lo sguardo gli si annebbiò. Mentre scivolava nell’incoscienza pensò, non senza una certa dose di ironia, che morire in uno scenario simile – addirittura con vista mare! – fosse un privilegio per pochi. Non sentiva più nulla, ora, tranne quel fastidioso ronzio sempre più forte. Percepì uno strattone e un forte spostamento d’aria e con le ultime forze che gli restavano pensò quasi con sollievo che un cedimento del chiodo fosse molto meglio di quell’agonia infinita.
Non vide Maurizio che gesticolava alla base della parete e perse i sensi proprio mentre il verricello iniziava ad issarlo nell’elicottero.

Autunno

“Certo che l’autunno è una stagione ben strana”, pensò Antonio fra se’ mentre, come ogni mattina, attraversava il paese a passi lenti “I prati sono colorati come in primavera, fa ancora caldo, ma magari il giorno dopo piove e tocca mettere già le maniche lunghe”.

Camminava per le strade di sempre, talmente conosciute che se avesse chiuso gli occhi le avrebbe potute percorrere a memoria. Camminava e si guardava in giro, salutando qualcuno ogni tanto e immaginando le parole maligne dietro a tanti falsi sorrisi. Arrivò alla piazza e vide il parroco, fermo davanti alla porta della chiesa. Gli fece un cenno di saluto che l’altro ricambiò senza particolare entusiasmo.

Passò oltre, arrivando alla strada che portava fuori, come se tra quelle quattro case in mezzo alla campagna si potesse identificare un “fuori” o un “dentro”. Nel prato che si apriva a destra della strada vide svettare i capolini gialli del topinambur e si fermò a raccoglierne qualcuno da aggiungere al mazzo di fiori selvatici che già teneva in mano. Staccava gli steli con perizia, senza strapparli, mentre sentiva gli sguardi dei suoi compaesani piantati nella schiena come pugnali e immaginava i loro commenti, ma andò avanti senza voltarsi.

Arrivò al ponte sul canale di irrigazione, quello dove negli anni in tanti per distrazione – ma qualcuno pure per volontà – erano caduti e annegati. Anche lui aveva rischiato, due anni prima, ma con una certa fortuna si era salvato. Si affacciò alla spalletta a guardare l’acqua torbida e fece spaziare lo sguardo intorno, come in cerca di qualcuno. Rimase lì per un tempo indefinito poi, ricordandosi che i fiori avevano bisogno d’acqua, si riscosse e riprese il cammino. 

Il cimitero era poco lontano, ormai: accelerò il passo e si diresse verso il cancello d’ingresso.
La lapide era semplice e pulita, con i caratteri in ottone che brillavano al sole. Antonio tolse dal vaso i fiori più rovinati e vi aggiunse quelli che teneva in mano. Ricompose il mazzo con gesti misurati, facendo in modo che i fiori dallo stelo lungo non coprissero quelli più piccoli, che i colori non cozzassero troppo tra loro e che il tutto avesse un aspetto ordinato, poi soffiò via i petali secchi dal marmo, raccolse ciò che andava buttato e andò a prendere dell’acqua per rabboccare il contenuto del vaso.

La signora Carini girò di scatto la testa per non farsi scoprire a scrutarlo, ma lui se n’era accorto già da quando era entrato. Solo mentre Antonio le passava accanto, lei finse di accorgersi della sua presenza e allora lui, partecipando alla recita, la salutò educatamente mentre andava alla fontanella. Tornò alla tomba, riempì il vaso e si sedette su una grossa pietra che aveva fatto mettere lì apposta per poterla usare come sgabello. Guardò il viso dolce della sua Maria che sorrideva dalla foto in bianco e nero e cominciò a raccontare a bassa voce: “Sai, ieri Gioele ha iniziato l’asilo. Era proprio bello vederlo lì, in mezzo agli altri bambini…”

Parlava a bassa voce, raccontando piccole storie di vita quotidiana, di ciò che succedeva in casa loro, di quel poco che poteva succedere in un paesino come quello, scandito dai ritmi della campagna e delle stagioni. 
Le raccontò ancora una volta di Adele, di come si fosse sistemata bene in quella grande casa mezza vuota, di quanto attiva e collaborativa fosse e della grande compagnia che gli facevano entrambi, ora che era rimasto solo, poi si chinò a baciare quella foto un po’ sbiadita e si avviò verso il cancello, accompagnato in sottofondo dal mormorio astioso della signora Carini.

Ripassò dal ponticello e si fermò nuovamente alla spalletta, ripensando a quel giorno di fine settembre di due anni prima. 

Aveva appena accompagnato Maria nel suo ultimo viaggio ed era rimasto lì fino alla fine, fino a veder cadere l’ultima palata di terra, fino a che anche gli operai del comune se n’erano andati e poi lentamente, da solo, si era avviato verso casa.
La strada era ormai deserta e Antonio si era fermato sul ponte a riprendere fiato quando si era accorto di un movimento in basso, vicino al canale. Pensava al solito capriolo imprudente, ma guardando meglio aveva scorto la ragazza con quel fagottino bianco tra le mani e le aveva urlato subito: “Vieni via da lì! È pericoloso!”. Lei si era voltata di scatto, lo sguardo disperato dell’animale in trappola, ed aveva iniziato ad indietreggiare, scivolando sulla sponda umida. Antonio era esperto di quel posto disgraziato: qualche imprudente l’aveva salvato anche lui, quand’era più giovane, ed era corso giù evitando i punti più scoscesi con passo esperto e sicuro. Arrivato abbastanza vicino le aveva porto una mano per aiutarla a risalire, ma lei sembrava più determinata a scendere che a salvarsi. Antonio allora aveva capito e si era allungato per sbarrarle la strada, riuscendo a strapparle di mano il fagotto, dal quale sporgeva ora una manina paffuta. La ragazza si era messa a urlare: “Ridammi il mio bambino, non posso morire senza di lui!”
“E non morirai nemmeno CON lui! Non oggi, almeno!” le aveva gridato Antonio di rimando. Approfittando di una sua distrazione l’aveva afferrata per un braccio e la tirava su mentre lei si dimenava e piangeva disperata. In tutta quella pericolosa manovra, alla fine, era proprio Antonio che stava rischiando di finire nel canale, ma fortunatamente un ramo si era messo di traverso, impedendogli all’ultimo momento di cadere in acqua. 
Seduto sulla riva, sporco e dolorante, guardava la ragazza sconvolta che cercava di consolare il pianto disperato di quel bambino. Aveva già preso la sua decisione, ma aspettava che i due si calmassero: l’avrebbe portata a casa sua e l’avrebbe fatta dormire lì – a meno che non ci fosse una famiglia da cui riportarla subito – e l’indomani si sarebbe deciso il da farsi. 
La ragazza sulle prime non voleva sentire ragioni, ma il pianto del bimbo era sempre più forte e insistente e alla fine fu quello a convincerla ad accettare la mano che l’uomo le stava porgendo. Arrivati nella grande casa, Antonio aveva preparato una cena calda, aveva dato alla ragazza dei vestiti puliti e avevano parlato un po’.
Adele, così si chiamava, gli aveva raccontato di essere una ragazza madre, che il padre del bambino era un uomo sposato che non voleva prendersi le proprie responsabilità e che la sua intenzione, ora che aveva deciso di voler vivere, era di andare a cercare fortuna più a nord, magari appoggiandosi a dei lontani parenti che vivevano vicino a Roma. 
Antonio le aveva preparato il letto in una stanza di quella casa silenziosa e l’aveva lasciata tranquilla, ritirandosi pensieroso in camera sua. 
Dalla foto sul comodino Maria sembrava lo guardasse negli occhi e la sua voce dolce e decisa gli rimbombava in testa dicendogli: “Puoi farlo. È giusto così”.

Interrompendo il flusso dei ricordi, Antonio riprese a camminare verso casa e ripassò dalla piazza. Guardò la gradinata del municipio e si fermò di nuovo, sorridendo al pensiero di quello che era stato capace di combinare. 

Su quei gradini, il giorno successivo, ci era salito assieme a Adele e al bambino. Ci aveva messo parecchio a convincerla, ma sapevano tutti e due che quella era l’unica strada. Si erano presentati all’anagrafe, dove lui aveva chiesto un riconoscimento di paternità dichiarando Gioele come figlio suo, frutto di una relazione clandestina con quella ragazza che aveva meno della metà dei suoi anni. 
Prima che i tre uscissero dal municipio, lo scandalo era già scoppiato e la notizia era sulla bocca di tutti. Perfino il parroco si era precipitato lì a sincerarsi che Antonio non fosse impazzito, ma l’unica cosa che l’uomo gli aveva detto era che, avendo già causato abbastanza guai, non aveva alcuna intenzione di sposarsi con Adele, almeno per non peggiorare le cose. 

Da dietro le finestre chiuse qualcuno lo osservava, fermo in mezzo alla piazza vuota. Ridacchiando ancora tra se’, Antonio riprese a camminare e arrivò finalmente a casa. 

Gioele corse ad abbracciarlo, mentre Adele si affacciava sorridente alla porta della cucina. 
La casa era nuovamente casa, viva e calda, come lo era finché Maria era stata in grado di occuparsene.

Assaporò quei momenti mentre pensava che in fondo l’autunno non è poi una così brutta stagione: porta frutti inaspettati, a volte, e riempie di colori la vita. 
Ma soprattutto, l’autunno è quella strana stagione in cui pensi sia arrivato il momento di chiudere certi conti e dove poi, invece, ti ritrovi felicemente intento ad aprirne altri. 

Scelgo la speranza

Notte. Mi rigiro tra le lenzuola nell’inutile ricerca di un punto del letto che sia un po’ più fresco. La luna, fuori, è un faro: mi abbaglia, mi ferisce gli occhi, mi scava dentro e non mi fa dormire. 

Non è evidentemente una buona notte per nessuno. Nella stanza vicina rumori inequivocabili mi parlano di sonno che non arriva: fruscio di lenzuola, sospiri, un lieve cigolio del letto ad ogni movimento. Rimango in attesa e raccolgo le forze. 

Dopo l’ennesimo sospiro ecco il primo singhiozzo. Mi alzo e senza accendere la luce, a tentoni, raggiungo l’altra stanza. Non faccio in tempo a sedermi sul letto che una mano mi afferra e mi ritrovo sulle ginocchia la testa di Anna che immediatamente scoppia in lacrime. Non dico nulla, lascio che si sfoghi mentre le accarezzo piano i capelli. 

Quando smette di tremare le chiedo: “Che succede, tesoro?”, anche se dentro di me conosco già la risposta. 

“Ci stanno imbrogliando, papà!”

“Che vuoi dire?”  rispondo.

“Ci dicono sempre che abbiamo tutta la vita davanti, ma non ci dicono mai quanto durerà!”

“Tesoro, non lo sa nessuno! Come potrebbero dircelo?”

Va avanti come se non mi avesse sentito: “Anche mio fratello aveva tutta la vita davanti. E anche mamma, anche se aveva un po’ di anni in più”

“Amore, nessuno poteva prevedere quell’incidente. Che cosa ti viene in mente?”

“Nulla, solo che è tutto così ingiusto! Siamo semplicemente condannati a invecchiare e morire e qualcuno addirittura a morire senza nemmeno invecchiare. Che senso ha?” dice, scoppiando nuovamente a piangere. Questa ragazzina è sempre stata molto più avanti della sua età, ma – accidenti! – ora non so più come rispondere. 

Cerco qualche appiglio, magari qualche memoria scolastica. Certo, se avessi seguito con maggiore attenzione le lezioni del povero prof. Parise, magari adesso avrei qualche base filosofica in più per controbattere, invece così non ho speranza… aspetta, com’era quella frase di Seneca…? Scegli la speranza o qualcosa del genere.

Qualche ricordo riaffiora e mi ci aggrappo con tutte le mie forze, come un naufrago al suo pezzo di legno. Tento un approccio un po’ bislacco, ma potrebbe funzionare: “vedi, tesoro, non è che possiamo vivere per sempre…”

Mi pento subito della mia scelta. La voce di Anna ora è quasi un ruggito: “Luca aveva solo tre anni! Nemmeno sapeva cosa volesse dire vivere o morire. Per lui per sempre aveva la durata di un pomeriggio con gli amici dell’asilo!”

La determinazione mi prende: “Per ognuno di noi per sempre ha un significato diverso: per tuo fratello era lo spazio di un bel momento, per me è quanto ancora mi verrà dato da vivere, per te è tutto, ma non necessariamente tutto deve significare molto.”

Alla luce della luna i suoi occhi ora mi guardano fisso, ansiosi di speranza. Continuo. 

“La nostra vita è un momento, più o meno lungo. Anche se è triste pensarlo, prima o poi ce ne andremo tutti. Ma il senso del tutto non è semplicemente esistere: il senso a questa esistenza lo dobbiamo dare noi. Mamma ha studiato, ha viaggiato, si è innamorata, mi ha sposato, abbiamo avuto due figli meravigliosi. Purtroppo la sua esistenza è stata interrotta molto prima di quanto noi due potessimo immaginare e sperare, ma tutto ciò che ha fatto – che ha desiderato fare – l’ha realizzata, l’ha resa viva e – in qualche modo per noi – immortale, perché senza di lei tu non ci saresti e io non sarei quello che sono. La morte non è il compimento finale, la morte fa parte del meccanismo e alla fine, anche se ti può sembrare assurdo, ci rende vivi.”

Mi accorgo di aver messo in fila tutto il discorso senza quasi prendere fiato. 

Anna mi guarda, attonita, ma ancora non è convinta: “E allora Luca? Cos’ha realizzato lui? Vedi che alla fine è solo la morte ad essere la regina di tutto?”

Il ricordo di Luca mi brucia dentro ma ricaccio indietro le lacrime: 

“Luca era troppo piccolo per realizzare qualcosa, se non darci felicità. Ed è ciò che ha fatto: ci ha resi felici, immensamente. Ti pare poco? Per quanto breve possa essere stata la sua esistenza è stata un’esplosione di gioia. È stata vita. La morte potrà pure essere la regina di tutto, ma, per dirla tutta, credi che una regina vorrebbe restare senza sudditi?”

“Cosa vorresti dire?” mi chiede, stupita. 

Riprendo coraggio: “Esattamente quello che ho detto: la morte non può tutto. Non può toglierci la gioia che abbiamo provato, non può modificare i momenti felici, non può rimuovere dalle nostre vite ciò che esse sono state.
Non può e non vuole, perché se con la nostra morte si azzerasse tutto nessuno la temerebbe più e una regina senza sudditi non avrebbe alcun senso di esistere.”

Ora lo sguardo di Anna buca l’oscurità: “quindi la vita e la morte si bilanciano? Quindi è una questione di… equilibrio?” ha quasi timore a pronunciare la parola.

“Esatto! La morte esiste perché esiste la vita, così come il buio esiste perché esiste la luce. Se spegniamo momentaneamente la luce non smettiamo di credere nella sua esistenza, vero?”

Annuisce, mentre le sue mani si rilassano tra le mie. Non sarà l’ultima volta che affronteremo l’argomento, ma un passo l’abbiamo fatto. Forse è solo un altro passo, ma è ancora un altro passo. 

Anna mi abbraccia stretto, sento ancora le sue guance rigarsi di lacrime, ma non è più disperazione quella che le bagna gli occhi: è sollievo. Lo stesso che provo io. 

Ora ricordo perfettamente anche la frase di Seneca: “Soppesa, quindi, speranza e paura, e quando tutto sarà incerto, favorisci te stesso: credi a ciò che preferisci. Anche se il timore avrà più argomenti, scegli la speranza e metti fine alla tua angoscia“. 

Il prof. sarebbe quasi fiero di sapere come me la sono cavata. 

Sì è alzata un po’ di brezza, Anna finalmente scivola verso il sonno, mentre il suo respiro si fa sempre più profondo.

C’è ancora una notte da percorrere, ma la luna ora è un faro che ammicca dalla spiaggia e mi guida su una rotta sicura, fuori dalle scogliere delle mie paure. 

Almeno per questa notte.

Il sale alle erbe

Il sale alle erbe non ha una ricetta. Almeno, non ne ha una sola.

Lo farai a primavera, per cogliere i profumi più freschi, quelli delle foglie tenere, appena spuntate. E anche se l’inverno sarà appena finito ti metterai subito al lavoro, per ricordarti che la meraviglia della primavera non durerà per sempre.

Dovrai farlo prima che le aromatiche fioriscano, perché tu vuoi conservare gli aromi, non uccidere la pianta.
E in fondo lo farai per ricordarti di rinascere, come fanno i persiani, che all’equinozio di marzo festeggiano il capodanno. Mica come noi fessi che lo facciamo quando il mondo è ancora tristemente buio e freddo e in tanti ci domandiamo sempre che cosa diamine ci sia da festeggiare, quando il sole tramonta appena dopo pranzo.

Il sale alle erbe lo si fa col sale grosso e molto rosmarino, ma senza esagerare, anche se quel suo odore aspro e pungente non ti basta mai.

E certamente ci vuole il timo, che rilascerà il suo profumo nelle lunghe cotture invernali, e la menta, veramente poca, ché altrimenti sarà invadente.

Ci metterai anche del finocchietto, per ricordarti la freschezza anche in inverno; la maggiorana e l’origano, profumi caldi, simili ma complementari; e la salvia, che sta bene proprio su tutto.
E ancora la melissa, perché la sua dolce freschezza di limone ti ricordi le lunghe estati di quando eri bambino; l’erba cipollina, che non stanca mai; un po’ di alloro, per gli arrosti; il dragoncello, per un tocco esotico; il mirto, per ricordarti il dolce vento sul mare anche quando il mare sarà una lastra di ferro grigia e fredda; e – perché no? – anche qualche foglia di lavanda, perché quel suo profumo spunti fuori a sorpresa mentre starai preparando un couscous.
Lo rifarai anche alla fine di agosto, il tuo sale alle erbe. Usando le erbe mature, cariche di sole e di vento, con le foglie che sembrano scoppiare di profumo, per tentare di rinchiudere sotto sale in quel vaso anche quell’ennesima estate, con la paura di contarle tutte e scoprire che sono già tantissime, quelle che ti sono passate sulla pelle.

Lascerai le erbe a macerare nel sale per tutto il tempo necessario, al buio.
Il sale asciuga, assorbe i liquidi, secca le fibre. Si prende tutto il profumo e lo mantiene intatto per mesi. Poi, quando ti sembrerà che basti, estrarrai tutto dai vasi e macinerai poco alla volta quel tesoro, grani di sale grosso ed erbe assieme, ottenendo un sale più fine ma verde e grigio, profumato d’estate e di sole.

E poi, quando verrà veramente l’autunno, andrai a cercare il ginepro maturo e ne metterai una manciata di bacche in ogni vaso. E magari anche qualche grano di pepe, perché il sapore sia un po’ più deciso.

E camminando e cogliendo scoprirai che in fondo anche la vita ha le sue certezze, i suoi profumi principali, i suoi tocchi esotici e le sue sorprese.

E che per noi il sale che ci conserva intatti è quello dell’acqua di mare. O delle lacrime.
E che, come per il sale alle erbe, anche per la vita non c’è mai una ricetta sola.